In questi giorni sto sfogliando il primo numero dell’edizione italiana di Wired, arrivato dopo sedici anni di quell’affascinante Wired sognato, fondato e curato da Louis Rossetto e lanciato insieme a Nicholas Negroponte.
Non sono un editore, ne’ il direttore di una rivista e non ho particolari esperienze editoriali. Probabilmente per questo motivo, nella mia impreparazione in materia, non avrei scelto di affidare alla foto di Rita Levi Montalcini l’immagine di copertina del numero di debutto. E lo dico nonostante anch’io (come Massimo Mantellini) abbia trovato bella l’intervista di Paolo Giordano, che – al netto di alcuni contenuti biografici e scientifici – trasmette di RLM un ritratto umano affascinante, sorprendente e senza età, nonostante cento intensi anni di vita non possano essere ignorati nemmeno per pochi attimi. Forse (de gustibus…) avrei scelto come copertina il grattacielo a piani rotanti di David Fisher, un impressionante progetto made in Italy, anche se sarà eretto negli Emirati Arabi (Fisher vive a Firenze, i piani saranno costruiti in Puglia, a Dubai sarà solamente assemblato).
Premesso questo, aprendo e sfogliando la rivista, l’impressione che traggo è un mix di reazioni contrastanti: sapevo già che non sarebbe stata una traduzione di Wired, ma un’edizione concepita per il pubblico italiano, per cui l’ho letto con molte aspettative. Dentro c’è molto e devo dire che ho trovato servizi decisamente interessanti, leggendone alcuni sono stato anche favorevolmente colpito, ma in questo Wired italiano il lettore si imbatte anche in pagine che, per contenuti e/o veste grafica, potrebbero facilmente trovare posto su magazine differenti e dal carattere meno tech. C’è inoltre un carico pubblicitario cospicuo, forse troppo eterogeneo (non targettizzato per il lettore di Wired) e per questo sono certo che qualcuno ne sarà irritato, ma temo si tratti di uno scotto inevitabile da pagare: anche al più ambizioso progetto editoriale di una rivista su carta, oggi più che mai, sarebbe impossibile reggersi sulle proprie gambe con i soli proventi derivanti dall’acquisto in edicola o dagli abbonamenti. E anche in queste condizioni non sarà facile stare a galla perché, come dice Negroponte, “il futuro è digitale”.
Credo sia inverosimile attenderci dalla costola italiana di Wired il carattere di rivoluzionarietà (se si può dire così) che ha avuto fin dagli esordi l’edizione nata negli States, ma a mio avviso il progetto di italianizzazione è ammirevole: questo primo numero è il primo passo di un cammino iniziato mesi e mesi fa, e non è certo il traguardo. Per questo motivo ritengo si tratti di un valido punto di partenza e mi aspetto piacevoli sorprese nei prossimi mesi. Sarebbe sorprendente che il Wired cartaceo fosse anche longevo.
Ermanno Pronesti
23 febbraio 2009 at 15:30
Giovedì mattina l’ho trovato in autogrill e l’ho comprato. Investiamo questi 4 euro in qualcosa che mi farà capire come va il mondo, mi son detto. Devo dire che il giornale mi è piaciuto, anche se poco tempo fa avevo letto qualche numero di Wired e trovo che tra le due edizioni ci sia ancora una certa distanza.
Penso sia come dici tu, questo è il primo numero ed è quello che deve attirare l’attenzione degli italiani, con un taglio che deve essere più accattivante di quei giornali come Focus o Jack che sono molto sensazionalisti anche su contenuti meno “densi”. Sicuramente proseguirò a leggere Wired e forse mi abbonerò anche, visto che abbonarsi per 2 anni costa come 5 numeri presi in edicola.
5 buoni numeri su un torale di 24, per considerare ammortizzata la spesa, li troverò. Almeno spero.
Mario Reiner
23 febbraio 2009 at 20:05
Mah, che dire… credo non sia ben definito il target, la copertina non stimola certo i “tecnologici”, i contenuti effettivamente ancora scarsi quanto ad innovazione. Credo sia la paura di fare una rivista di nicchia, in un Paese che di nicchie ce n’ha un milione, per cui il progetto si rivelerebbe una catastrofe dal p.d.v. economico. Ancora un’occasione perduta, bisogna imparare ad osare di più. Rivista da sala d’aspetto del dentista, se non da parrucchiere. Forse un po’ più Gizmodo e un po’ meno Panorama non avrebbe guastato. Peccato.
Lara Medici
23 febbraio 2009 at 21:57
Io confesso che l’ho trovato davvero fico!
Cioe’: questo aspetto un po’ patinato che lofa sembrare una via di mezzo tra Max e il National geographic lo rende davvero un giornale che puo’ essere letto da tutti con rispetto!
Marco Zambianchi
24 febbraio 2009 at 11:56
Ciao,
grazie alla tua recensione che mi ha incuriosito, l’ho comprato di corsa. Molto buono il livello degli articoli, interessanti i contributors (ma dai, mandagli il tuo curriculum 😉 ).
Penso proprio che la riacquisterò volentieri.
db
25 febbraio 2009 at 05:27
Marco, dalla tua reazione (di acquisto della rivista in seguito al mio post) sembra quasi che io stia diventando un opinion leader 😀
Quasi quasi scrivo alla Conde’ Nast per chiedere la provvigione, altro che curriculum 😉
giorgia
7 marzo 2009 at 02:58
Io l’ho trovato bruttissimo, 4euri buttati e un’occasione sprecata. Al Politecnico di Torino, dove insegno, ho raccolto solo pareri negativi.
achille
7 marzo 2009 at 10:01
Forse il tuo campione sara’ significativo Giorgia, ma dal Politecnico di Torino – dove anch’io lavoro – ti posso dire che a me e ad altri Wired non e’ affatto dispiaciuto. Ha sicuramente bisogno di qualche aggiustatina, ma e’ un inizio promettente e per questo ho investito 19 euro nell’abbonamento.