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Webtax cancellata, problema rimasto

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Al termine di un iter alquanto tortuoso,  la cosiddetta webtax è stata accantonata, ma solo per quanto riguarda l’obbligo, per le aziende che fanno business via Internet, di avere una partita IVA italiana: resta in vigore, per le imprese, la regolamentazione dei pagamenti – che potranno essere effettuati solo con bonifico bancario o postale, o con altri strumenti da cui si possa identificare la corrispondente partita IVA del beneficiario – così come rimangono in piedi anche il requisito della stabile organizzazione e la tracciabilità dei profitti.

Per quanto possa sembrare – ed essere – una soluzione impercorribile così com’è stata concepita, la proposta della webtax testimonia un problema molto serio legato alle opportunità di elusione fiscale da parte di molte grandi aziende. E’ un problema di dimensioni rilevanti e, dato che riguarda realtà che operano su mercati di livello internazionale grazie al regime di libera concorrenza, non può essere affrontato solamente a livello locale e non va pensato unicamente con orientamento ai business legati ad Internet (l’elusione fiscale, i paradisi fiscali esistono da quando esiste il fisco, non da quando esiste la rete), anche se sono quelli che generano i numeri meno visibili: tanto per rendere l’idea del fatto che la questione è più ampia del Vecchio Continente, è sufficiente notare che Google ha la sua base negli USA, ma ha sedi anche in Irlanda, Olanda e Bermuda, e si stima che – in virtù dei differenti regimi fiscali in vigore in questi stati – nel 2012 il risparmio fiscale negli Stati Uniti sia stato pari a 2 miliardi di dollari.

A soluzioni mirate ad evitare il profit shifting (l’opportunità di veicolare profitti nei paradisi fiscali e non avere utili imponibili negli stati in cui si opera) stanno lavorando, in ottica internazionale, la Commissione Europea e l’OCSE, lavorando su due fronti: uno è ovviamente quello fiscale, perché la disinvoltura delle multinazionali che operano su Internet è foriera di danni dal punto di vista delle entrate pubbliche, ma c’è anche da osservare la concorrenzialità dell’ampio mercato in cui queste aziende si muovono, dal momento che sfruttano agevolazioni che danno loro un enorme vantaggio nei confronti di altre aziende, incluse quelle della GDO (Grande Distribuzione Organizzata).

Esiste già una direttiva europea – la n.112 del 2006 – in cui, anche in seguito a modifiche successive, è stato previsto che gli Stati UE possano pretendere il pagamento delle tasse dove vengono erogati i servizi. L’entrata in vigore di questa norma è fissata per il gennaio 2015, ma non si escludono slittamenti. Sarebbe opportuno che non si verificassero: le distorsioni fiscali e di mercato sono già andate oltre ogni limite tollerabile e la proposta della webtax, seppur con le sue criticità, ha avuto un effetto positivo nell’evidenziare la questione e portarla ad alti livelli di discussione, che dovranno tradursi in fatti.

 
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Pubblicato da su 10 marzo 2014 in business, Internet, Mondo

 

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Quando vi dicono che è colpa di Internet…

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Quando qualcuno indica in Internet e nei social network la causa principale di tematiche serie che riguardano i ragazzi, come bullismo e cyberbullismo, hate speech (i cosiddetti discorsi d’odio con cui si manifesta intolleranza e odio verso una persona o un gruppo sociale in base a razza, etnia, religione, l’orientamento sessuale o quello politico, identità di genere o altre particolari condizioni fisiche o sociali) e altre problematiche, suggeritegli la lettura del libro It’s complicated di Danah Boyd (potete acquistarlo, o scaricarlo dal sito danah.org), che documenta una ricerca lunghissima (iniziata nel 2005 e conclusa nel 2012) sulle vite connesse di molti ragazzi e le spiega agli adulti.

Il titolo è perfetto: It’ complicated, è complicato, perché affrontare queste problematiche non è affatto semplice e individuare il colpevole in uno strumento tecnologico è facile. Ed è sbagliato. Perché una tecnologia non intacca problematiche sociali e culturali.

 
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Pubblicato da su 28 febbraio 2014 in Internet, ricerche

 

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Il digital divide colpisce ancora

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Dalla decima edizione dell’Annuario Scienza Tecnologia e Società di Observa Science in Society si apprende che in Italia il 37% della popolazione non ha mai usato Internet, ne’ un computer, mentre il consumo televisivo giornaliero è mediamente di 4,2 ore. Siamo non poco fuori dalla media europea, che indica i “tecnoesclusi” nel 20% della cittadinanza. I Paesi con più basso tasso di digital divide (almeno, in questo senso) sono la Svezia (in cui solo il 3% non ha un computer) e la Danimarca (4%).

Dall’agenzia Adnkronos: Flop digitale, 4 italiani su 10 non hanno mai usato internet e pc

Questi dati, sottolinea Saracino, “fanno emergere un’Italia che solo in una fascia specifica della popolazione, cioè i giovani under 40, accede alle nuove tecnologie, mentre registra un gap tecnologico ancora forte nelle fasce di età fra i 45-60 anni”. Un gap, continua Saracino, che “vede le donne maggiormente ‘tecnoescluse’ degli uomini”. Le donne, è l’analisi di Saracino, “usano meno le nuove tecnologie sia per la differente condizione occupazionale, cioè hanno un accesso inferiore al mondo del lavoro dove tipicamente si usano internet e pc, sia per il tipo di attività svolta, spesso lontana dalle tecnologie digitali”. Nel complesso, secondo Saracino, “dieci anni di dati ci dicono che il vero problema del gap digitale italiano non è l’assenza di una cultura scientifica”.

“Il nodo critico, in questi dieci anni, -osserva ancora Saracino – resta la fragilità di una cultura della scienza e della tecnologia nella società, di una cultura che sappia discutere e valutare i diversi sviluppi e le diverse implicazioni della scienza e della tecnologia evitando le opposte scorciatoie della chiusura pregiudiziale e dell’aspettativa miracolistica”.

Per “aprire le porte ad un maggiore accesso e uso delle tecnologie digitali -afferma la ricercarice- bisognerebbe spingere il nostro Paese verso una vera cultura scientifica” fasce ampie di popolazione.

E, riguardo la digitalizzazione ancora troppo lenta del nostro Paese, Saracino taglia corto: “L’apertura al digitale trova attenta solo la fascia giovanile degli italiani mentre un’ampia fascia di cittadini, i più ‘maturi’ non sembra alfabetizzata a sufficienza per utilizzare la rete al meglio delle possibilità”.

 
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Pubblicato da su 18 febbraio 2014 in computer, Internet, tecnologia

 

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Una Internet “europea”?

EuropaInternet

Lo scandalo esploso l’anno scorso con il nome di Datagate continua a partorire conseguenze più o meno prevedibili. L’ultima – ma solo per ora, in ordine di tempo – è l’idea espressa da Angela Merkel di realizzare una rete di comunicazioni europea, separata dagli USA e non controllabile dai servizi di intelligence d’oltreoceano. La cancelliera intende approfondire questo progetto con il presidente francese Francois Hollande in occasione del loro incontro a Parigi, prefigurando la costituzione di una sorta di asse franco-tedesco che guidi l’Europa verso una Internet indipendente.

Al pari di quelle di molti altri rappresentanti di Stato, anche le conversazioni telefoniche di Angela Merkel sono state intercettate nell’ambito del programma PRISM lanciato dalla NSA, ma anche dal programma TEMPORA avviato dal GCHQ britannico. Una vicenda che ha fatto scroprire alla Merkel che una fetta enorme del traffico di telecomunicazioni generato dall’Europa passa dagli USA, per questioni fondamentalmente economiche, dato che in America esistono infrastrutture di telecomunicazioni che permettono di veicolare le informazioni a condizioni molto convenienti. E come riporta il settimanale tedesco Der Spiegel, la Germania – legittimamente – non può tollerare di essere in grado di assicurare alla giustizia un borseggiatore e di non riuscire neppure ad aprire un’indagine sulle intercettazioni al cellulare della cancelliera.

Da queste vicende (ma non solo) parte l’idea di realizzare una rete di telecomunicazioni europea, un progetto che però dovrà considerare di dover prendere una posizione nei confronti della Gran Bretagna, che non si trova oltreoceano e che è parte dell’Europa. Dovrà considerare anche gli accordi dell’intesa chiamata Safe Harbor, siglata tra Stati Uniti ed Europa, che alle aziende americane che operano su Internet con clienti europei offre una certa flessibilità sul rispetto delle normative privacy in vigore nel Vecchio Continente.

Inoltre non potrà trascurare che l’avvento delle moderne tecnologie di comunicazione, e quindi della Internet che conosciamo, quella per cui risulta più conveniente far passare dagli Stati Uniti persino un messaggio di posta elettronica spedito da Milano a Roma, ha abbattuto i confini geografici e cambiato il concetto di sicurezza nazionale. Soprattutto ha reso più complesso quello della sicurezza dei dati e delle informazioni: le operazioni di spionaggio da parte dei servizi di intelligence americani non costituiscono un problema esclusivamente europeo. Anche alcuni servizi europei vi hanno preso parte e gli spiati non sono solo europei. E ciò è stato reso possibile con la collaborazione più o meno volontaria delle aziende di cui tutti sfruttano i servizi di comunicazione, nonché grazie alla conoscenza di tecnologie per eludere o escludere i sistemi di sicurezza adottati sulle reti. Questi fattori si ripresenterebbero con la stessa criticità anche se venisse realizzata una rete di telecomunicazioni esclusivamente europea, pertanto il problema della sicurezza verrebbe trasferito, anzi “localizzato”, ma non eliminato.

Merkel e Hollande forse non conoscono personalmente questi aspetti, ma nel loro entourage annoverano sicuramente consiglieri ed esperti che li conoscono a fondo e che sono perfettamente consapevoli delle difficoltà tecniche, politiche ed economiche che questa idea incontrerà. Ma in questo momento, probabilmente, è più importante annunciare il progetto per dare alla cittadinanza europea l’impressione di un interessamento concreto. Sull’opportunità e sulla fattibilità dell’idea si ragionerà più avanti. Forse.

 
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Pubblicato da su 17 febbraio 2014 in Internet, istituzioni, news, security

 

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Google pensa alle password audio

Google ha messo le mani su SlickLogin, azienda israeliana specializzata in applicazioni che permettono il login – ossia l’accesso – attraverso password audio o sonore.

Il funzionamento di una password audio è abbastanza semplice: da un’app installata su un dispositivo mobile (smartphone o tablet) si analizza un segnale audio emesso da un computer dotato di altoparlanti. Quello specifico segnale deve corrispondere a quello generato dinamicamente da un altro computer in un preciso istante. In pratica il procedimento è simile a quello che, ad esempio, genera certe password temporanee emesse da una banca per confermare le operazioni di Internet Banking, la differenza è che – invece di inserire un codice alfanumerico, ricevuto via SMS o ottenuto da un token – si deve confermare un suono.

 
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Pubblicato da su 17 febbraio 2014 in Internet, security

 

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MafiaLeaks è online

MafiaLeaksLogo

Il suo ambizioso obiettivo dichiarato è “raccogliere informazioni riguardanti le attività mafiose direttamente dall’interno delle stesse” e il suo nome è MafiaLeaks. Online da poche ore, questa nuova risorsa di whistleblowing (che significa, per rendere l’idea, “denunciare dall’interno”) è una sorta di WikiLeaks di settore, vista la specificità della tematica trattata, essendo stata aperta per dare spazio alle segnalazioni di vittime o persone a conoscenza di informazioni su attività di stampo mafioso. Un’arma contro l’omertà che è stata realizzata con GlobaLeaks, piattaforma software open source e gratuita che agevola la raccolta e l’invio di informazioni riservate a destinatari selezionati.

Il sito web MafiaLeaks è solo un’interfaccia di presentazione del progetto, con le istruzioni per prendervi parte. L’anonimato delle informazioni raccolte è tutelato dall’impiego di Tor e caldamente consigliato:

Non vi chiediamo di  fidarvi di MafiaLeaks, anzi, vi preghiamo di non fidarvi di MafiaLeaks! Inviate le vostre infromazioni in maniera anonima, non fate il vostro nome, non lasciate niente all’interno dei dati che possa essere riconducibile alla vostra persona.

L’iniziativa appare molto interessante e credo valga la pena seguirne gli sviluppi.

 
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Pubblicato da su 6 novembre 2013 in Internet

 

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Datagate e ricadute dalle nuvole

A metà luglio, in merito al Datagate, scrivevo del coinvolgimento di tutti i nomi di grandi aziende nel programma di sorveglianza attuato dai servizi di intelligence americani, concludendo:

nessuno cada dalle nuvole se si dovesse scoprire che la NSA, allo stesso scopo, ha sfruttato e sfrutta anche la collaborazione delle altre aziende come GoogleFacebook  e Yahoo, visto che si tratta di aziende che offrono mail, VoIP, piattaforme cloud per applicazioni e storage, social network con chat e servizi per condividere di tutto. Ah, ricordo che di questo gruppo di aziende fa parte anche Apple. E che tutte queste aziende hanno utenti anche tra i cittadini italiani (ma all’orizzonte non si vedono istituzioni nostrane in allarme).

Da qualche ora (oggi è il 22 ottobre) pare che qualcuno si sia allarmato:

I servizi segreti americani spiavano anche l’Italia. Dopo le rivelazioni di Le Monde sulle intercettazioni telefoniche in Francia, si fa sempre piu’ probabile l’ipotesi che nel mirino delle spie americane ci fossero anche le utenze private e corrispondenze di posta elettronica italiane. Ieri, Claudio Fava, deputato di Sel e membro del Comitato parlamentare di controllo sui Servizi (Copasir), ha riferito il contenuto di una serie di incontri che dal 29 settembre al 4 ottobre scorsi, una delegazione del Copasir ha avuto a Washington con i direttori delle agenzie di intelligence americane e con i componenti delle commissioni di controllo sui Servizi di Congresso e Senato Usa. ”Dai nostri qualificatissimi interlocutori – ha detto Fava – abbiamo avuto la conferma che telefonate, sms, e-mail tra Italia e Stati Uniti, in entrata e in uscita, sono oggetto di un programma di sorveglianza elettronica del Governo Usa regolato esclusivamente dalle leggi federali, che, per quanto i nostri interlocutori ci hanno ribadito, sono dunque la sola bussola che governa questo tipo di attivita’ di spionaggio”.  

Il Copasir è il Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica. La stessa istituzione che, alla notizia che Telecom Italia sarebbe passata in mani spagnole, ha lanciato un allarme di sicurezza nazionale, senza ricordare che da anni le Pubbliche Amministrazioni italiane fruiscono di servizi di telecomunicazioni di compagnie di proprietà non italiane, che quindi per anni hanno veicolato dati personali e sensibili di tutti i cittadini italiani, senza generare alcuna necessità di allarme.

Ora, questa stessa istituzione su cui noi tutti dovremmo poter contare, quattro mesi dopo la diffusione delle notizie sul Datagate, ci svela con solennità che anche l’Italia è stata coinvolta nel programma di sorveglianza elettronica.

Verrebbe da dire che il Copasir sta alla sicurezza nazionale come i curiosi stanno agli incidenti stradali.

A margine di queste considerazioni, una nota ANSA per sorridere un po’:

“L’Italia non ha mai concesso agli Usa di intercettare cittadini italiani”. Così l’ex presidente del Copasir Massimo D’Alema, parlando ad una manifestazione elettorale a Trento. D’Alema sottolinea la necessità di un chiarimento sul ‘Datagate’: “Siamo un Paese sovrano e da noi per esempio non possono essere effettuate intercettazioni dei cittadini italiani senza l’autorizzazione della magistratura”.

Certo, per dare corso ad un’operazione di spionaggio sarebbe lecito attendersi la richiesta di permesso:

Salve, siamo agenti segreti americani. Vorremmo intercettare telefonate e corrispondenza elettronica di cittadini italiani, possiamo?

No.

Ok, scusateci per la richiesta. Non lo faremo. Arrivederci

D’altro canto,  “da noi per esempio non possono essere effettuate intercettazioni dei cittadini italiani senza l’autorizzazione della magistratura”. Esattamente come non è possibile evadere il fisco, rubare o uccidere, perché sono azioni che vanno contro la legge, e nessuno le compie (!)

 
 

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Promemoria sui biscottini dagli sconosciuti

Quando navigate in Internet, avete idea di come potete essere tenuti sotto controllo, per essere profilati a scopo di marketing e, conseguentemente, ricevere pubblicità su misura, oppure fare inconsapevolmente parte di un campione statistico?

Con l’ausilio di un’estensione denominata DoNotTrackMe (disponibile per vari browser) potreste scoprire verità forse impensabili. Quello che segue è un esempio di quanto accade quando fate innocentemente visita al sito web di alcune fra le più popolari testate giornalistiche (doppio click per ingrandire l’immagine).

DoNotTrackMeGiornali

Nei dettagli, in queste analisi ricorrono con frequenza i nomi di Google +, Twitter e Facebook (che sono lì per consentirvi di condividere sui social network un determinato articolo, pubblicizzandolo presso i vostri amici/follower), a cui su aggiungono Real Media, Visual Revenue, Google Analytics, Omniture, Netratings Site Census, New Relic. Un gruppo che ha occhi ben aperti sulla nostra navigazione, pronti a contare i nostri click, vedere dove navighiamo, ed elaborare tutte queste informazioni a beneficio proprio, degli inserzionisti pubblicitari e dei clienti, partendo da innocenti cookies (biscottini).

Le informazioni ricavate in questo modo, seppur asettico, prese nel loro complesso sono molto più attendibili di quelle che potrebbero essere ottenute attraverso un’intervista o indagine di mercato (in cui si può rispondere ciò che si vuole). Il problema è che si tratta di informazioni che riguardano noi e – forse – preferiremmo di gran lunga esserne noi i primi destinatari, anziché consegnarle inconsapevolmente a qualcun altro, allo scopo di alimentare il suo business.

Secondo l’articolo 122 del Decreto Legislativo 196/2003 (il Codice della Privacy), il consenso dell’utente all’utilizzo dei cookies non è necessario quando essi hanno una finalità tecnica (ad esempio per identificazione degli utenti, nell’ambito di una sessione, per agevolare transazioni), mentre è necessario negli altri casi (in cui rientrano quelli utilizzati a scopo di marketing e profilazione). Quindi, come sempre, l’importante è sapere che ci sono, per poter scegliere se accettarli o rifiutarli.

 
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Pubblicato da su 22 ottobre 2013 in Internet

 

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Essere o non essere (online)

CorrierePubblicità

Il Comitato di redazione del Corriere della Sera, prima di capire cosa significhi “essere online”, nell’ottobre 2013 ha scritto questa lettera al proprio direttore:

Caro direttore, abbiamo visto con stupore che il nostro sito online ospita addirittura un link a un altro sito. Ci sembra una iniziativa incomprensibile, specie in un momento in cui stiamo discutendo, con tutte le difficoltà che conosci, su come rendere più redditizio il nostro di sito. Ti chiediamo, dunque, di interrompere quest’operazione che ha disorientato la redazione e che per altro è stata assunta senza neanche informare il Cdr, come invece è previsto dal Contratto.  In caso contrario non riusciamo proprio a capire di che cosa dovremmo continuare a discutere. Un caro saluto

Personalmente, rimango dell’opinione che una testata giornalistica – soprattutto nell’edizione web – non possa esimersi dal pubblicare i link non solo ad inserzionisti pubblicitari, ma anche alle fonti da cui la notizia è stata tratta, o ai siti a cui una notizia fa riferimento, e ben venga il fatto che il collegamento porti al sito di un’altra testata (in questo caso si parla di un box che portava al sito Linkiesta, finito sulla homepage di Corriere.it per motivazioni non ancora chiarite, ma non per questo ingiustificate o illegittime). Sono convinto sia più redditizio nei confronti dei propri lettori, che torneranno su quelle pagine proprio perché sapranno di trovare in esse un valore aggiunto rispetto all’edizione cartacea. Nonostante quel cornicione pubblicitario che circonda il Corriere (e altre testate) affinché sia più redditizio, ma che per utenti come me è addirittura controproducente, perché crea un inquinamento visivo che mi fa desistere dal visitare il sito.

Comunque – finché non verrà completamente eliminata – sul sito c’è ancora qualche traccia del presunto misfatto.

CorriereLinkiesta

 
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Pubblicato da su 21 ottobre 2013 in Internet, news, News da Internet

 

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Orange vende elettronica online in Italia

OrangeLogo

Arriva in Italia Orange, la compagnia di telecomunicazioni francese. Il primo passo nel Belpaese consiste nell’apertura di un negozio on-line con articoli di elettronica e prodotti tecnologici che vanno dai telefoni agli accessori, con il plus di un diritto di recesso entro 30 giorni e della consegna a domicilio a costo zero per spese superiori ai 100 euro.

Un concorrente in più per i vari negozi online già esistenti, magari in attesa di comparire tra i competitor delle compagnie telefoniche attive sul “libero” mercato italiano.

 
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Pubblicato da su 9 ottobre 2013 in business, cellulari & smartphone, Internet

 

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Google Talk può sbagliare numero. Anzi, username

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Utilizzate Google Talk (sistema di comunicazione VoIP e Instant Messaging confluito in Google+ Hangouts)? Fate attenzione: alcuni utenti riferiscono infatti che la piattaforma recapita messaggi a destinatari errati. Il problema sembra colpire proprio gli utenti che non hanno fatto l’upgrade a Hangouts (non è una giustificazione, ma solo la spiegazione di un possibile effetto collaterale). Per risolvere il problema, comunque, lo staff tecnico di Google dichiara di essere già all’opera.

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Pubblicato da su 26 settembre 2013 in Internet, tecnologia

 

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Start & stop

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Ci scusiamo per il disagio è una frase per me talmente ricorrente che, anziché indurre clemenza, scatena irritazione. La sensazione non è diversa – anzi, genera altre emozioni nefaste – nel leggerla sulla homepage di Smart & Start, il portale italiano dedicato alle startup dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e gestito dall’agenzia Invitalia.

Mercoledì 4 settembre, il giorno del clic day, il sito che doveva accogliere le domande di finanziamento delle imprese innovative del sud è crollato sotto i colpi dei loro clic: funzionamento prima lento, poi bloccato, PIN che non arrivano, regioni (come la Sardegna) che spariscono…  Intendiamoci, i problemi si possono verificare, ma l’entità degli aspetti critici del funzionamento di questo sito è decisamente notevole. Troppo, per chi poche ore prima dell’apertura si pubblicizzava con questi toni epocali…

  • Il viaggio comincia, conquista nuovi mondi

…e con paragoni spropositati

  • 1882 – Thomas Edison inaugura la prima rete di illuminazione elettrica
  • 1888 – George Eastman registra il marchio KodaK
  • 1998 – Larry Page e Sergey Brin fondano Google 
  • 2013 – Apre Smart&Start

La situazione è ben descritta oggi in un articolo di Riccardo Luna. Forse in risposta alle numerose lamentele, Invitalia ha pubblicato un comunicato stampa per spiegare la vicenda.

 
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Pubblicato da su 6 settembre 2013 in brutte figure, Internet, istituzioni, pessimismo & fastidio

 

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Comunicazione criptate? Non per tutti

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La NSA (National Security Agency, l’agenzia americana per la Sicurezza Nazionale) e il GCHQ (Government Communications Head Quarter, l’ente britannico per la sicurezza nelle comunicazioni) sono in grado di acquisire informazioni dai sistemi di comunicazione anche quando i dati sono criptati.

E’ quanto riportato ieri da GuardianNew York Times e Pro Publica, citando ancora una volta Edward Snowden come fonte. Significa che queste organizzazioni di intelligence sono in grado di aggirare le soluzioni di crittografia, e di questo forse non dovremmo stupirci, visto il tipo di attività che svolgono le agenzie e – soprattutto – alla luce di quanto è emerso negli ultimi mesi.

La cosa che tuttavia può risultare più inquietante è il programma di collaborazione che NSA ha sviluppato con alcune grandi aziende d’oltreoceano che si occupano di tecnologia. Nell’ambito di questo programma, a quanto pare, è prevista una partecipazione – più o meno attiva – al progesso di progettazione e sviluppo dei prodotti, allo scopo di conoscere (o inserire ad hoc?) backdoor e punti deboli nei sistemi di cifratura, per poterli poi sfruttare e accedere alle informazioni protette dagli stessi sistemi. La stessa agenzia, negli ultimi anni, avrebbe inoltre operato affinché, nella stesura dei protocolli di comunicazione e delle regole di cifratura utilizzate come standard a livello internazionale, venissero inserite vulnerabilità appositamente studiate per agevolare operazioni di intelligence.

Non c’è scampo dunque? Non è esattamente così: se riteniamo attendibili le dichiarazioni finora rilasciate da Snowden, le possibilità di accesso non sono infinite e la NSA non ha conoscenza totale di tutti i sistemi di sicurezza. Un primo fatto certo, però, è che non tutte le informazioni che circolano al mondo sono interessanti e, quindi, non è detto che tutto sia suscettibile di intercettazione (quindi non temete che la mail innocentemente spedita all’amico possa essere utilizzata contro di voi). Un secondo fatto certo è che le novità su questo argomento non sono finite. Un terzo fatto certo – in realtà il più importante, da non dimenticare mai – è che, nel mondo digitale, non esiste la sicurezza assoluta al 100% che la segretezza di un’informazione non possa essere violata.

 
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Pubblicato da su 6 settembre 2013 in comunicazione, Internet, istituzioni, Mondo, news, privacy, security, TLC

 

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Amazon Post

WashingtonPostBezos

“Il dovere del giornale resterà quello di rispettare i suoi lettori, e non gli interessi privati ​​dei suoi proprietari. Noi continueremo a seguire la verità ovunque porti, e lavoreremo sodo per non commettere errori. Quando accadrà, ce ne assumeremo totalmente la responsabilità”

E’ quanto scrive Jeff Bezos, fondatore e CEO di Amazon, in una lettera ai collaboratori del Washington Post, il prestigioso quotidiano che ha appena acquistato per 250 milioni di dollari. L’operazione si aggiunge all’acquisizione di Business Insider dello scorso aprile ed è stata condotta da Bezos a titolo personale, ossia non attraverso Amazon. Nella sua inedita veste di editore, il nuovo proprietario ha manifestato l’intenzione di mantenere vertici e organico attuali, ma questo non preclude evoluzioni importanti, che riguarderanno il Washington Post come il mondo dell’editoria:

“Internet sta trasformando praticamente ogni settore nel business dell’informazione, abbreviandone i tempi, erodendone fonti di reddito a lungo affidabili, e consentendo nuove forme di concorrenza, alcune delle quali riducono o abbattono i costi di raccolta delle informazioni. Non c’è una mappa con le strade da seguire, e tracciare un nuovo percorso non sarà facile. Avremo bisogno di inventare, che significa che avremo bisogno di sperimentare”.

Che, a sua volta, significa grandi novità all’orizzonte.

 
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Pubblicato da su 6 agosto 2013 in comunicazione, Internet, media

 

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