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Didattica online, sabotatori identificati (ovvio)

Già l’istruzione è un settore enormemente penalizzato dall’emergenza sanitaria che – tra l’altro – ha spinto all’adozione di Dad (Didattica a distanza) e Did (Didattica integrata digitale), ma la situazione può solo peggiorare se a rincarare la dose arrivano i cosiddetti “Sabotatori della Dad” che io, per sbagliare meno, definirei Sabotatori della didattica online. A farne le spese (serve dirlo?) sono ovviamente gli studenti.

Chiariamo un punto: questi sabotatori non possono essere chiamati hacker, come invece ho letto nei titoli di alcune news, perché per loro sarebbe un complimento inappropriato. Un hacker si avvale delle proprie competenze informatiche per analizzare approfonditamente un sistema allo scopo di scovarne le vulnerabilità e metterne in luce le debolezze o le potenzialità non note. Stando però a quanto riportato dalla stampa, alcune persone (finora ne sarebbero state identificate tre) avrebbero avuto accesso alle credenziali di accesso alle videolezioni (fornite da studenti conniventi) per creare disturbo e sabotare verifiche o interrogazioni. Senza curarsi di mettere in atto i reati di interruzione di pubblico servizio e accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico.

Senza avere concrete responsabilità, anche lo youtuber Bibo è stato coinvolto nelle indagini, sulla base delle prove di alcune innocenti incursioni messe in atto un anno fa in alcune videolezioni. Fatte “solo per salutare”, considerando che “le hanno fatte in tantissimi”, ma non si può ignorare il fatto che, benché quelli di Bibo (e di altri come lui) fossero episodi senza malafede (effettuati magari in pause o “ore buche”), le sue azioni online sono state prese in esame insieme a molte altre operazioni abusive, svolte fondamentalmente nello stesso modo, grazie alla complicità di studenti che comunicavano le modalità per accedere alle videolezioni ai sabotatori, nella falsa sicurezza di apparire anonimi e non rintracciabili, per irrompere durante le interrogazioni.

La regola della didattica online è semplice e chiara: i codici devono essere noti solo agli insegnanti e ai loro studenti. Chiunque altro li utilizza compie un abuso, anche se non ha obiettivi malevoli. Non è complesso da capire: uno che trova le chiavi di accesso a casa mia (o alla classe di una scuola) non è certo autorizzato ad entrare e curiosare, no? Quindi, Bibo & company, ora sanno – se già non fosse stato chiaro prima – che nelle videolezioni possono entrare solo se prima li autorizza l’insegnante (esattamente come andare in una scuola di persona)… altrimenti è reato.

“C’è il penale” (cit.): vale la pena fare una bravata?

 
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Pubblicato da su 23 marzo 2021 in news

 

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Un lockdown meno pesante, grazie Internet

C’è qualcosa che in questo periodo abbiamo dato tutti per scontato, sbagliando, ed è la “tenuta” di Internet. E’ assodato che il traffico sia aumentato in modo progressivo, poiché tra febbraio e marzo è stata registrata un’enorme crescita della domanda di traffico dati, comportata dalle nuove esigenze di formazione e didattica a distanza, telelavoro e smartworking, ma anche da un maggior consumo di intrattenimento online, con un’impennata di gaming e streaming.

Immaginiamo un black-out di Internet, anche solo temporaneo. Oppure pensiamo a cosa sarebbe accaduto se non avessimo avuto le possibilità di connessione attuali e poniamoci qualche domanda…

Cos’avreste fatto senza Internet?

Quanto sareste riusciti a sopportare il lockdown?

 
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Pubblicato da su 20 Maggio 2020 in news

 

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Zoom, abbiamo un problema…

Molti utenti in questo periodo di isolamento o quarantena hanno conosciuto Zoom, una soluzione per videochiamate di gruppo che viene utilizzata da molti insegnanti per lo svolgimento di videolezioni, ma non è solo per la didattica, viene utilizzato anche a livello sportivo e professionale, contesto per il quale è stato pensato (è uno degli strumenti di cui parlavo un mese fa nel post su telelavoro, smart working e didattica a distanza). Gli utenti giornalieri attualmente sono circa 200 milioni, ma fino a dicembre non superavano i 10 milioni. L’impennata ha catturato l’attenzione di alcuni esperti di sicurezza, che si sono preoccupati di analizzarla. Risultato: bene, ma non benissimo.

Il Washington Post ha scoperto che su servizi come Amazon Web Services, Youtube e Vimeo si possono trovare moltissimi video di videochiamate registrate. Zoom permette infatti la registrazione dei meeting e in tal caso ogni partecipante viene avvisato dall’applicazione, quindi è all’utente che spetta gestire se mantenere la registrazione sul proprio computer oppure online e nulla gli impedisce di caricare i video su una piattaforma di suo gradimento. L’azienda si limita a raccomandare estrema cautela e chiede agli utenti di essere “trasparenti” con i partecipanti alle videochiamate (“ah tizio, ti avviso che la registrazione della nostra conversazione vorrei caricarla su Youtube”).
Da una ricerca di The Intercept emerge inoltre che in Zoom la crittografia sarebbe implementata solo tra utente e server della piattaforma, non tra gli utenti. E non è finita: The Verge ci informa che con il software zWarDial è stato possibile scovare in un giorno almeno 2.400 indirizzi di meeting organizzati con Zoom, e se per il meeting non è stata impostata una password… ci si può imbucare (da cui è nato il termine zoombombing). Niente di male per una trasmissione per cui si vuole intenzionalmente avere il maggior numero di partecipanti possibile, ma sarebbe una bella “scocciatura” per un meeting con scambio di informazioni riservate.
I vertici dell’azienda hanno dichiarato di voler risolvere tutti i problemi legati alla privacy, riconoscendo di non essere stati all’altezza delle aspettative degli utenti e di quanto richiesto in termini di sicurezza. Doveroso, ma questo tradisce la superficialità dell’approccio adottato per una piattaforma che si dichiara nata per il mondo enterprise, ma che ha un’intuitività di utilizzo che la rende adatta per il mondo dell’istruzione, oltre che per community di utenti privati.
In ogni caso, due raccomandazioni per quando si crea un meeting con Zoom:
  • se lo registrate, mantenetelo sul vostro computer e non salvatelo online (a meno che non si tratti di uno storage in cloud, vostro e adeguatamente protetto);
  • impostate una password per l’accesso al meeting (quest’ultima indicazione dovrebbe diventare o già essere un default, dato che Zoom pare aver recepito le numerose segnalazioni e lamentele)
 
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Pubblicato da su 6 aprile 2020 in news

 

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Telelavoro, smart working, didattica a distanza. Ci voleva il coronavirus?

Necessità di limitare gli spostamenti, scuole chiuse, zone rosse, rischi di contagio: la diffusione epidemica del nuovo coronavirus obbliga ad alcuni cambiamenti nello stile di vita, resi necessari dalle varie misure di contenimento, adeguate giorno per giorno da chi ha la responsabilità di salute e ordine pubblico. Questi cambiamenti hanno portato alla “scoperta” di opportunità già esistenti, ma finora ignorate da molti per impreparazione o refrattarietà culturale, cioè il telelavoro, lo smart working e la formazione a distanza.

I primi due spesso sono confusi ed erroneamente identificati nello stesso concetto, ma anche se possono avere alcuni punti in comune, si tratta di due approcci diversi:

  • il telelavoro (lavoro a distanza) permette di lavorare altrove rispetto al posto di lavoro, solitamente a casa propria, con l’ausilio di strumenti tecnologici che consentono di mantenere un collegamento con la sede lavorativa, nel rispetto degli orari stabiliti dal datore di lavoro, che possono favorire anche la contemporaneità lavorativa con altri colleghi;
  • lo smart working permette di non essere legati ad un unico luogo in cui svolgere il proprio lavoro; può trattarsi di casa propria, di una sede staccata o anche di una panchina al parco; a differenza del telelavoro non ci sono obblighi sul rispetto dell’orario, ma obiettivi da raggiungere. Per favore, però, evitiamo l’etichettatura lavoro agile: si tratta di una prestazione lavorativa (o collaborazione) gestita autonomamente.

La recente crescita italiana di queste attività svincolate dal posto di lavoro è conseguenza dell’emergenza sanitaria di questo periodo. Certo non è sempre possibile avvalersi di queste possibilità in un Paese di piccole e medie imprese, molte delle quali con attività manifatturiera, ma con lo sviluppo dei servizi non è impensabile estenderne la diffusione. Fino allo scorso anno in Europa gli italiani che lavoravano in una di queste forme erano il 4,8%. Per fare un confronto rapido: nei Paesi Bassi si sfiora il 36% di lavoratori che sfruttano queste possibilità, in Svezia il 35%. Vedremo se e come evolverà la situazione in questo senso.

Ma anche il mondo dell’istruzione può – anzi deve – evolversi in questo senso, e qui credo che l’argomento meriti una migliore messa a fuoco. Le scuole chiuse stanno facendo emergere esigenze importanti, non solo perché gli studenti si devono mantenere in esercizio (e quindi gli insegnanti devono assegnare compiti a casa in modo alternativo a quello consueto), ma anche perché si deve seguire quella programmazione che la sospensione e la chiusura dell’attività scolastica hanno interrotto. In quest’ottica, le nuove tecnologie della comunicazione possono essere di supporto alla didattica a distanza. Ma le nostre scuole sono pronte a questo? Insegnanti e studenti sono dotati di risorse e strumenti adeguati?

Quando si è parlato dell’utilizzo degli smartphone a scuola ho avuto modo di evidenziare:

In buona parte delle nostre scuole oggi mancano infrastrutture tecnologicamente adeguate (soprattutto in termini di connettività – ad Internet e interna – e di attrezzature) e sul fronte degli insegnanti è necessario provvedere ad una formazione idonea all’acquisizione di competenze mirate in tal senso. Naturalmente attuare tutto questo non è possibile senza provvedere ai necessari investimenti in questa direzione, un presupposto fondamentale per porre le basi di un serio processo di alfabetizzazione digitale.

In mancanza d’altro, troviamo insegnanti volenterosi che inviano materiale didattico ai propri studenti tramite mail o messaggi WhatsApp, tentativo lodevole all’insegna del “si fa quel che si può”. Ma questa non può essere LA soluzione, anche se supera in modo rudimentale due considerevoli lacune: la mancanza di una piattaforma scolastica per la didattica a distanza e il digital divide culturale di una parte degli insegnanti e degli studenti (e no, nel 2020 la frase “non sono tecnologico” non ha più giustificazione: con uno smartphone sono tutti pronti a chattare e diventare leoni da tastiera, a scattarsi selfie, a pubblicare “stati” e “storie” con foto ritoccate e filtrate, a utilizzare app più o meno utili… ma nel momento in cui c’è una funzione seria e utile da imparare con pochi click, sembra che nessuno sia in grado di farlo).

Le scuole possono trovare una soluzione sfruttando vari supporti: il primo è quello del Ministero dell’Istruzione, che ha messo loro a disposizione la pagina web Didattica a distanza, che offre l’opportunità di utilizzare materiali multimediali Rai per la didattica, Treccani scuola, Fondazione Reggio Children – Centro Loris Malaguzzi e di piattaforme per la formazione a distanza.

Una proposta a mio avviso interessante è inoltre quella di INDIRE – Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Ricerca Educativa: sul loro sito web è disponibile edmondo, che viene presentato come “un mondo virtuale 3D online, dedicato esclusivamente a docenti e studenti per l’innovazione della didattica in classe”. Una sorta di Second Life declinato al mondo della didattica, dove questo tipo di mondo virtuale può trovare un’applicazione sicuramente proficua.

Va però ricordato che Indire, inoltre, ha organizzato un’iniziativa di solidarietà tra scuole con il supporto delle reti Movimento “Avanguardie educative” e Movimento delle “Piccole Scuole”, che si presentano pronte alla collaborazione con docenti e dirigenti scolastici degli istituti scolastici che ne faranno richiesta per offrire la propria esperienza nell’utilizzo di tecniche didattiche e strumenti innovativi. L’iniziativa si chiama “La scuola per la scuola” e vi hanno già aderito molti istituti.

Non mancano le soluzioni offerte da due grandi aziende tecnologiche, come Google e Microsoft, attive in questo settore rispettivamente con GSuite for Education e Office 365 Education A1. In tutta onestà, però, sarei molto riluttante ad utilizzare la piattaforma di e-learning di Google: è un’azienda che ha come core business l’utilizzo di dati a scopo di profilazione, per cui non mi meraviglierei se sfruttasse i dati acquisiti dagli studenti italiani per le proprie attività. Verificherei bene le condizioni di utilizzo dei dati conferiti alla piattaforma, prima di avere sorprese.

Per questo motivo – e vista la nulla attenzione al software libero, che le istituzioni dovrebbero invece promuovere – probabilmente punterei su una soluzione come Weschool, una validissima piattaforma per la didattica integrata, che consente a studenti e professori di condividere qualsiasi tipo di contenuto, collaborare a lavori di gruppo, giocare, fare esercizi e ottenere feedback in tempo reale. Nella piattaforma è possibile trovare video, articoli, corsi, video quiz, libri di testo, prodotti collaborativi, lavori di gruppo.

Per quanto riguarda “semplici” strumenti di condivisione di lezioni, si possono sicuramente citare ad esempio Jitsi.org , Zoom.us, Big Blue Button. Esistono inoltre risorse “pronte all’uso” come quelle reperibili su Risorsedidattiche.net e Redooc.

Sicuramente esistono altre soluzioni, tutto sta a vedere quali rappresentano meglio le esigenze di insegnanti e studenti. Questo spazio rimane disponibile per eventuali segnalazioni: si tratta di voler seriamente iniziare e proseguire un percorso. Forse il nuovo coronavirus ha dato lo stimolo per partire.

 
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Pubblicato da su 8 marzo 2020 in news

 

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