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Password: scocciatura o serratura?

Nella classifica delle password più utilizzate, l’Italia si distingue (poco): mentre a livello mondiale resta saldamente in testa l’inossidabile “123456“, noi ci differenziamo con “admin” (dimostrando anche un discreto complesso di superiorità: l’admin è l’administrator, l’utente principale, il profilo con permessi di accesso “onnipotenti”). Ma in realtà la fantasia è poca, come si vede dal parallelo tra le top ten “Tutti i Paesi” e “Italia”. Perché nonostante siamo nel 2023, non tutti hanno maturato la consapevolezza che oggi, nell’era in cui tutto viene digitalizzato (dai documenti al conto corrente bancario), la password è la versione digitale della chiave – o della combinazione – che apre la cassaforte in cui conserviamo i nostri dati personali.

Si noti inoltre – sempre dalle classifiche qui riportate – quanto tempo serve per decifrare le password di uso comune: nel 70% dei casi basta meno di un secondo per aggirare l’ostacolo. Una menzione d’onore meritano però gli utenti che hanno scelto UNKNOWN, che danno più filo da torcere ai malintenzionati. Ovviamente uno dei criteri più diffusi resta sempre quello di utilizzare il proprio nome, ma nessun nome ricorrente potrà mai vantare presenze pari alle password più standard del mondo.

La debolezza della password è un problema? Sì perché, come detto sopra, le password sono le chiavi. Chiavi di casa digitali, del conto in banca, del computer. Se le perdiamo – o se ne perdiamo il controllo al punto da permettere a un’altra persona di impossessarsene e farne un utilizzo illecito – sapete meglio di me cosa può accadere: dal furto di informazioni a quello di identità, passando per i reati contro il patrimonio, le probabilità di subire un danno concreto sono direttamente proporzionali alla facilità di individuazione della parola chiave.

Le password devono essere complesse, e il più possibile slegate e indipendenti da qualunque informazione che ci riguarda: meglio pensare a qualcosa di differente dal nome (nostro o di qualcuno di famiglia, animali domestici inclusi), dalla data di nascita e da qualsiasi informazione che possa essere facilmente individuata, per conoscenza diretta o indiretta.

I criteri di composizione delle password devono andare in altre direzioni. Ad esempio si può pensare ad una frase, considerando le lettere iniziali di ogni parola che la compone e giocando con maiuscole e minuscole, usando anche lettere alternate a numeri e aggiungendo caratteri speciali. Oppure è possibile ricorrere a un generatore di password (come Roboform) e affidarsi alla sua scelta, senza utilizzare informazioni riconducibili a informazioni personali. Quando le password diventano tante e diventa difficile gestirle, anziché scriverle su un post it o in un foglio Excel, è il momento di affidarsi ad una soluzione di password management, cioè di qualcosa che possa aiutare a gestirne l’inventario e a recuperarle all’occorrenza. Una soluzione efficace e gratuita ad esempio è Devolutions Hub Personal.

Mai sottovalutare l’importanza delle password. Se pensate alle informazioni personali gestite dalle applicazioni installate su uno smartphone, ad esempio, capite bene quanta parte della vostra vita ha bisogno di password sicure: account social media, posta elettronica, conto corrente bancario, fascicolo sanitario elettronico, identità digitale. La possibilità che le nostre informazioni personali finiscano nelle mani sbagliate ci deve far riflettere: meglio una sola password, facile, da utilizzare per tutti gli account (che una volta rubata apre ai malintenzionati tutte le porte), oppure tante password complesse, diverse per ogni account?

 
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Pubblicato da su 18 novembre 2023 in news, privacy, security

 

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ChatGPT, bloccata ma accessibile. In modo legale

Semaforo rosso acceso davanti a ChatGPT da parte del Garante Privacy che la scorsa settimana ha disposto la limitazione provvisoria del trattamento dei dati degli utenti italiani nei confronti di OpenAI, la società americana che gestisce la piattaforma. È bene chiarire, però, che il provvedimento riguarda il divieto di raccolta e trattamento di dati personali, non l’accesso a ChatGPT, che è stato bloccato per iniziativa della stessa OpenAI, non del Garanre.

In sintesi le motivazioni del provvedimento sono l’assenza di un’adeguata informativa agli utenti sulla raccolta di dati personali degli interessati, la mancanza di motivazioni alla base delle attività di raccolta e conservazione massiccia di dati personali (in parole povere, non spiegano perché raccolgono i dati personali senza informarli) e la mancanza di una “barriera” che impedisca ad utenti minorenni di accedere al servizio. Sì, anche il fatto che può raccogliere, memorizzare e comunicare informazioni non corrette, che non possono essere modificate nell’interesse di chi è titolare di quei dati.

ChatGPT, come dicevo sopra, non è stata resa inaccessibile dal Garante: è stata OpenAI ad aver disabilitato l’accesso in via cautelativa agli utenti in Italia, e per questo provvederà ai dovuti rimborsi degli utenti che hanno acquistato un abbonamento. Impegnandosi al rispetto delle leggi sulla protezione dei dati personali, l’azienda dichiara di voler ripristinare l’accessibilità della piattaforma il prima possibile.

E’ possibile aggirare la chiusura di questo “cancello”? Certo, utilizzando una VPN che non permette a ChatGPT di conoscere la provenienza dell’utente. Ed è una soluzione lecita, perché è stata OpenAI a bloccare l’accesso, non un’autorità italiana 😉

Chiaramente, oltre ad utilizzare la VPN, l’account che accede non deve dichiarare di essere italiano. E chi ha a cuore la riservatezza dei propri dati si documenterà in modo da utilizzare una VPN che – magari per sostenere la propria gratuità – sfrutta comunque i dati personali dell’utente. Qui di attenzione, altrimenti si torna… al punto di partenza.

 
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Pubblicato da su 3 aprile 2023 in news

 

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Amazon Astro, il “follower” elettronico

Si chiama Astro ed è stato presentato ieri da Amazon come un simpatico robot domestico, che gira per casa come un cucciolo curioso, muovendosi grazie alle sue tre ruote e con la sua testa – uno schermo – con due occhioni che cercano di dargli espressività. In pratica è un Echo Show con il “dono” della mobilità, che in più può “obbedire” al comando di spostarsi verso una determinata posizione della casa e riconoscere una persona (che Astro può identificare con un sistema di riconoscimento facciale), per portarle un oggetto, oppure per interagire attivando videochiamate o ancora trasmettere avvisi e allarmi relativi a compiti di videosorveglianza.

Al netto del design – più simpatico che sofisticato – sono però emerse molte perplessità sul “prodotto”, evidenziate da Motherboard: l’importanza del riconoscimento facciale per il suo funzionamento è nel mirino di coloro che sono più attenti alla tutela della riservatezza dei dati personali (per gli amici, la privacy) e lo stesso vale per le informazioni che Astro raccoglie in merito al comportamento dell’utente. Soprattutto perché, a quanto pare, questo “cucciolo elettronico” soffre di alcuni “problemi di gioventù” tutt’altro che trascurabili.

Tra le funzionalità che avrebbero necessità di migliorie, se non di un upgrade di rilievo, ci sarebbe innanzitutto il sistema di riconoscimento delle persone (che analizza e memorizza i volti di ogni persona rilevata nell’ambiente in cui si trova), che sarebbe “decisamente difettoso” e renderebbe quindi non affidabili alcune caratteristiche, come le funzioni di videosorveglianza. Altri aspetti critici consisterebbero nella possibilità di identificare ostacoli o pericoli sul suo percorso, per la presunta incapacità di Astro di riconoscere correttamente una scala e, quindi, di muoversi con il banale rischio di cadere. Quindi, stando a quanto dicono su Motherboard, vede poco e rischia di fare danni.

Vedremo in seguito se Amazon sarà in grado di risolvere i dubbi (non di poco conto) sollevati. Per quanto riguarda le perplessità sulla riservatezza, non c’è nulla di nuovo o diverso da quanto scritto da me in un post di due anni fa, dal titolo: si chiamano assistenti vocali perché assistono.

Si chiamano assistenti perché assistono

 
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Pubblicato da su 29 settembre 2021 in news

 

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Facebook at Work ora si chiama Workplace

Con un colpo di scena assolutamente ininfluente, il già annunciato Facebook at Work è stato ribattezzato Workplace by Facebook.

Per il resto vale quanto già scritto nel mio post di fine settembre:

Considerazione non superflua: è necessario essere consapevoli che si tratta di un sottoinsieme di Facebook, prima di pensare di utilizzarlo per comunicare informazioni riservate. E’ una questione di sicurezza tutt’altro che trascurabile perché, sebbene l’utilizzo sia interno all’azienda, il livello di controllo esercitabile sulle operazioni compiute e sui dati memorizzati su quella piattaforma sarà sempre comunque inferiore a qualunque altro sistema amministrato internamente. Pertanto è bene porre la massima attenzione a non trasformarlo in un database di dati aziendali importanti, critici o sensibili. Per il bene vostro e della realtà per cui lavorate.

 
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Pubblicato da su 11 ottobre 2016 in Internet, news

 

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La privacy su Facebook? Dipende da “molti altri fattori”

Qualche anno fa, un mese dopo essermi iscritto a Facebook, nella sezione persone che potresti conoscere il social network mi ha proposto una persona che effettivamente conoscevo, mai contattata prima su FB: si trattava di CR (ne riporto solo le iniziali), una conoscenza occasionale, titolare di una struttura alberghiera in cui avevo alloggiato in Francia un anno prima con la mia famiglia. Tra me e CR, però, non ci sono mai stati contatti diretti, ne’ telefonate, ne’ mail, non abbiamo amici comuni ne siamo legati da gruppi o altri insiemi di utenti su Facebook. Gli unici contatti erano stati intrattenuti da mia moglie (che non è iscritta a Facebook), attraverso il suo indirizzo mail personale, che naturalmente non ho mai utilizzato. Risalendo cronologicamente a tutte le mail dei dodici mesi precedenti, ho trovato solo un paio messaggi – ricevuti da mia moglie – che riportavano il testo dei messaggio che lei aveva a sua volta ricevuto da CR.

Nella mia posta in arrivo, quindi, le uniche informazioni relative a CR erano contenute in due forward (due messaggi inoltrati). Con l’opzione trova amici sapevo che era possibile dare in pasto a Facebook i contatti, affinché li cercasse nei propri database. Ma nella mia rubrica di contatti non esiste alcun record relativo a CR.

Dunque, come faceva Facebook a propormi un’amicizia probabile, ma pressoché impossibile da recuperare secondo i canali dichiarati e ufficiali? Una casualità? Per carità, può darsi… ma de che?

Tempo dopo, sempre tra le persone che potresti conoscere, ecco la foto di un’altra persona, ER. Non è che la conosca, diciamo che la conosco di vista, è il cognato del mio amico MD (che non è iscritto a Facebook). Prima di vedere la sua foto non sapevo nemmeno quale fosse il suo cognome, io ed ER non siamo mai entrati in contatto diretto, non ho il suo indirizzo mail ed escludo che lui abbia il mio, sul social network non abbiamo amici comuni ne’ altre possibilità di essere aggregati su Facebook per altri motivi (nessuna preferenza comune, nessun like, niente, abitiamo a migliaia di km di distanza, quindi nemmeno le reti di Facebook ci potrebbero unire e lui dichiara di non aver mai cercato amici importando i propri contatti). Nella mia posta in arrivo non ci sono tracce del suo indirizzo, ma in passato è possibile che il mio amico MD mi abbia inviato almeno una mail che contenesse, nei destinatari o nel testo, il nome o l’indirizzo di ER.

Anche qui, dunque, Facebook mi ha proposto un’amicizia probabile, possibile, ma non rilevabile dai canali dichiarati e ufficiali. Quindi a cosa mi sono trovato di fronte, a un’altra casualità?

E com’è che, nel tempo, si sono ripetute molte altre casualità di questo tipo, ossia trovare su Facebook proposte di entrare in contatto con persone che effettivamente potevo conoscere, ma con le quali non avevo mai avuto contatti rilevabili dalla mia rubrica (fonte dichiarata da cui poter attingere dati)?

Facebook spiega che in persone che potresti conoscere “le persone vengono visualizzate in base agli amici in comune, alle informazioni relative a lavoro e istruzione, alle reti di cui fai parte, ai contatti che hai importato e a molti altri fattori”. Nei contatti che ho importato – per chi non se li ricorda, Facebook ha una cronologia – queste persone non ci sono mai state. Quindi, per le casualità di cui parlo, devo pensare che dipendano da quei molti altri fattori,  un po’ difficili da capire, non essendo neppure accennati nella Normativa sull’utilizzo dei dati pubblicata da Facebook, ma che potrebbero essere spiegati con un’analisi dei contenuti delle mail più invasiva di quanto sia ufficialmente dichiarato.

Non c’è da stupirsi, dal momento che – come scrive Marco oggi sul New Blog Times – Facebook fa largo uso di tecniche di Data Mining. E chissà cos’altro fa, per ottenere il maggior numero di informazioni possibili per profilare al meglio i propri utenti…

Per cui, oltre all’usuale prudenza che dovrebbe essere costante in tutto ciò che facciamo sui social network, suggerisco serenamente di utilizzare, per Facebook, un indirizzo mail apposito, che non viene utilizzato per altro.

 
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Pubblicato da su 3 ottobre 2012 in business, news, privacy, social network

 

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