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Il problema non è (solo) Kaspersky

C’è da scuotere la testa a leggere, in questi giorni, le parole di Franco Gabrielli, attualmente Sottosegretario di Stato con delega alla sicurezza nazionale. In un’intervista al Corriere della Sera Gabrielli ha parlato di segnali di crisi e alert su possibili attacchi informatici esistenti già da gennaio, dichiarando:

“Dobbiamo imparare a vivere gli alert come gli annunci di eventi meteorologici avversi: non con disperazione ma con spirito di reazione per evitare le conseguenze peggiori. Tenendo presente che scontiamo i limiti strutturali di un sistema di server pubblici inadeguato, e che pure in questo ambito dobbiamo liberarci da una dipendenza dalla tecnologia russa».

Che tipo di dipendenza?

«Per esempio quella di sistemi antivirus prodotti dai russi e utilizzati dalle nostre pubbliche amministrazioni che stiamo verificando e programmando di dismettere, per evitare che da strumento di protezione possano diventare strumento di attacco».

Nessun nome viene pronunciato nell’intervista, ma già qualche anno fa era emerso che le soluzioni di sicurezza di Kaspersky Lab, da tempo accusate di essere suscettibili di subire interferenze da parte del governo russo, erano state adottate da molte pubbliche amministrazioni italiane: tra queste – si legge in un articolo di Euronews – vari ministeri inclusi Difesa, Giustizia, Infrastrutture, Economia, Interno, Istruzione, Sviluppo Economico, alcune Authority (Agcom e Antitrust), l’Enav, il CNR e la Direzione centrale dei Servizi Elettorali.

L’argomento “Kaspersky” però potrebbe essere solo l’ultima criticità “a valle” di un problema ben più complesso: Gabrielli ha parlato esplicitamente di un sistema di server pubblici inadeguato e, se teniamo conto che solo nel 2021 è stata istituita una Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale, capiamo che l’inadeguatezza non è semplicemente una questione di sistemi obsoleti o sottodimensionati, o di un piano in attesa dell’approvazione di un budget appropriato, le vulnerabilità sono alle fondamenta e derivano anche da una consapevolezza tardiva dell’importanza della sicurezza nell’infrastruttura informatica della pubblica amministrazione, che già nel 2017 venne etichettata come “un colabrodo” da Giuseppe Esposito, allora vicepresidente del Copasir.

Dico che le vulnerabilità derivano anche da una consapevolezza tardiva perché c’è un altro aspetto da considerare: il problema della dipendenza tecnologica non deve farci guardare solo in direzione della Russia, ma verso tutte le realtà di provenienza esterna a organismi e alleanze di cui fa parte l’Italia (ad esempio Unione Europea, Nato). Adottare soluzioni e piattaforme di aziende estranee a questa sfera fanno sfuggire quella sovranità tecnologica che potrebbe dare maggiori garanzie, soprattutto in enti e organizzazioni che hanno rilevanza critica per il Paese. Considerando che un software come un antivirus è in comunicazione frequente e continua con i server dell’azienda da cui proviene (ad esempio per il download di tutti i vari aggiornamenti e l’upload di log per analisi di quanto rilevato), è comprensibile la massima attenzione su questo fronte.

Una curiosità: lo scorso anno è stato pubblicato il rapporto Telehealth take-up: the risks and opportunities (tradotto sommariamente: L’adozione della telemedicina: i rischi e le opportunità), con i risultati di un’indagine che ha coinvolto un campione di 389 fornitori di servizi sanitari di 36 Paesi, da cui è risultato che l’89% delle organizzazioni sanitarie italiane utilizza apparecchiature e dispositivi medici con sistemi operativi obsoleti (e quindi privi di quel supporto che ne garantirebbe le possibilità di aggiornamento per la sicurezza).

Se non l’avete già scoperto cliccando sul link inserito nel titolo del rapporto, ve ne svelo l’autore: Kaspersky Lab.

 
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Pubblicato da su 14 marzo 2022 in news

 

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Anche la scuola può subire un attacco informatico

Disservizi, hacker, vulnerabilità. Ormai le notizie sulle violazioni di piattaforme online sono all’ordine del giorno e ci danno la misura di quanto la sicurezza informatica sia tanto sottovalutata quanto fondamentale. Se volete sapere qualcosa di più sul leak dei dati di 533 milioni di utenti di Facebook (già accennato in gennaio), seguite il video con lo spiegone definitivo di Matteo Flora, davvero il più esaustivo sul tema. Io invece pongo l’attenzione sul cosiddetto hackeraggio dei registri elettronici.

Non bastavano DAD e DID a rendere problematico l’anno scolastico: ci mancava anche un attacco informatico sferrato ai danni di Axios Italia, sulla cui piattaforma si appoggiano il 40% delle scuole italiane. Il Registro elettronico è in pratica la risorsa che mantiene traccia delle presenze degli studenti, delle attività svolte, delle valutazioni, di compiti e consegne. Ma è anche lo strumento in cui gli insegnanti trasmettono comunicazioni di servizio a studenti e famiglie. Una piattaforma informativa fondamentale.

L’attacco ha generato un disservizio che ha reso inaccessibili i server e di cui l’azienda, il 3 aprile, ha dato conto immediatamente:

Gentili Clienti, a seguito di un improvviso malfunzionamento tecnico occorso durante la notte, si è reso necessario un intervento di manutenzione straordinaria. Sarà nostra cura darVi comunicazione alla ripresa del servizio.

Lunedì 5, la precisazione:

Gentili Clienti, a seguito delle approfondite verifiche tecniche messe in atto da Sabato mattina in parallelo con le attività di ripristino dei servizi, abbiamo avuto conferma che il disservizio creatosi è inequivocabilmente conseguenza di un attacco ransomware portato alla nostra infrastruttura.

Dagli accertamenti effettuati, al momento, non ci risultano perdite e/o esfiltrazioni di dati. Stiamo lavorando per ripristinare l’infrastruttura nel più breve tempo possibile e contiamo di iniziare a rendere disponibili alcuni servizi a partire dalla giornata di mercoledì.

I disservizi si sono protratti fino ad oggi, giornata in cui molti studenti italiani (approssimativamente due terzi) hanno ripreso le lezioni “in presenza”.

Va riconosciuta ad Axios una prontezza di reazione che le ha consentito di tamponare l’emergenza, trasmettendo istruzioni ad hoc per la gestione del registro in questa situazione. Ma va riconosciuto innanzitutto l’aspetto più serio: un problema di cybersecurity – in questo caso un attacco ransomware – può colpire anche l’istruzione. Eventualità che era già possibile o prevedibile, ma la vicenda rende evidente che anche al mondo della scuola e delle piattaforme che ne offrono i servizi – come si è visto anche in Francia – tocca fare i conti con il problema della sicurezza e la protezione delle informazioni, in massima parte legate ad attività svolte da utenti di minore età.

 
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Pubblicato da su 7 aprile 2021 in news

 

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La risposta di Mario Draghi

Da un simpatico siparietto datato marzo 2018, ecco la reazione di Mario Draghi a chi rispondeva di no alla domanda “Accetterebbe di essere Presidente del Consiglio?”.

In ogni caso… buon lavoro! 😉

 
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Pubblicato da su 3 febbraio 2021 in news

 

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Guardando le classifiche delle ricerche Google…

 

Uno dei giochi che mi piace fare quando Google pubblica le sue classifiche delle ricerche svolte nell’anno che volge al termine è confrontare i risultati italiani con quelli globali. Rende l’idea su ciò che gli utenti del nostro Paese hanno messo a fuoco rispetto al resto del mondo. Ci sono analogie e differenze importanti, che rispecchiano la nostra realtà socio-culturale. Nella Top 5 assoluta delle “nostre” ricerche troviamo Coronavirus, Classroom, Weschool e Nuovo Dpcm: termini che in un anno non caratterizzato dall’emergenza sanitaria difficilmente avrebbero guadagnato posizioni così elevate. Sono però contento per Weschool, piattaforma didattica digitale made in Italy che è riuscita a porsi quale alternativa alle soluzioni proposte educational di Microsoft e Google.

 
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Pubblicato da su 10 dicembre 2020 in news

 

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INPS down, colpa di un click day che non lo era

Chi ha provato oggi ad accedere al sito dell’INPS, dopo varie peripezie, potrebbe essersi imbattuto nel messaggio riportato nell’immagine (la faccina scoraggiata è mia). La stampa ha riferito dei molti problemi lamentati dagli utenti che nelle ultime ore hanno tentato di presentare online la domanda per i bonus baby-sitting e quello di 600 euro previsto dal decreto “Cura Italia” per alcune categorie di lavoratori autonomi e p.iva. A quanto pare si è verificato di tutto: c’è chi non è mai riuscito ad entrare e c’è chi è riuscito ad accedere, visualizzando però dati anagrafici di un altro utente (e ricaricando la pagina web, l’anagrafica cambiava e mostrava dati ancora differenti). Ad un certo punto, in seguito ai disservizi lamentati dagli utenti il sito è stato chiuso, con le dichiarazioni del presidente dell’INPS Pasquale Tridico che ha attribuito a un attacco hacker la causa dei problemi, attacco che – stando alle dichiarazioni – sarebbe stato ricevuto stamattina e anche nei giorni scorsi.

A livello di infrastruttura tecnologica, certamente non è un gioco da ragazzi prepararsi a ricevere milioni di contatti a pochi giorni dalla pubblicazione del decreto, e questa considerazione va a difesa dell’INPS e di chi ne gestisce il sistema deputato a ricevere eccezionalmente quei milioni di domande. Ciò premesso, alcune osservazioni mi sorgono spontanee:

  • faccio un po’ fatica a credere che oggi l’INPS abbia aperto al pubblico la ricezione delle domande per il bonus, nella consapevolezza di essere sotto attacco da giorni e di essere quindi vulnerabile, sottoponendosi al rischio di subire seri problemi;
  • il fatto che un utente abbia potuto accedere a un’anagrafica altrui (nonostante il suo accesso fosse autenticato) e il refresh della pagina lo abbia portato alla visualizzazione di altri dati, più che al pesce di aprile di un fantomatico hacker fa pensare ad un’errata impostazione, di indirizzamento dell’utente o di cache;
  • le idee non erano chiare già in partenza: se da un lato risultava evidente che il meccanismo era quello di un “click day” – che prevede l’accoglimento delle domande in ordine cronologico, per cui il “chi tardi arriva, male alloggia” impone che la domanda vada presentata al più presto possibile – dall’altro lato sul sito web si leggeva la rassicurante indicazione “Tutte le richieste saranno esitate. Vi preghiamo di non ingolfare il sito!”, contraddittoria rispetto al fatto che le coperture definite dal governo non erano sufficienti a soddisfare le domande. Ma lo dicono dall’Inps, quindi… tutti rassicurati.

I fatti sono comunque evidenti, il sito ha avuto problemi, si è ingolfato ed è stato chiuso. Durante l’ingolfamento si sono verificati però problemi di esposizione di dati personali altrui, dati ovviamente riservati e che andavano protetti e tutelati secondo la legge e questo obbliga l’INPS a comunicare entro 72 ore il data breach sia al Garante della Privacy che agli utenti interessati. “Dall’una di notte alle 8.30 circa, abbiamo ricevuto 300mila domande regolari” ha dichiarato il presidente dell’INPS. I problemi sono stati rilevati quando il traffico dati è aumentato

Si poteva risolvere diversamente? Sì, forse potenziando l’infrastruttura. Ma, come dicevo sopra, non è un gioco da ragazzi e il problema non si risolve installando qualche apparato e stendendo qualche cavo in più. Non avendo molto tempo a disposizione, si sarebbe potuto adottare fin dall’inizio la soluzione di scaglionare gli accessi.

Di sicuro non era possibile risolvere tutto con un’autodichiarazione.

PS: a proposito di attacchi… anche gli hacker prendono le distanze!

 
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Pubblicato da su 1 aprile 2020 in brutte figure, news, privacy

 

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Solidarietà Digitale, perché qualcuno cambia idea?

Fa notizia il dietrofront di Amazon per l’offerta della visione gratuita di Prime Video nelle zone a rischio di contagio. Lanciata quando il DPCM dell’8 marzo indicava come “zone rosse” la Lombardia e le altre 14 province e proposta fino al 31 marzo, una volta estese le restrizioni a tutto il territorio italiano l’azienda ha deciso di ritirarla, come si può notare dall’elenco del portale Solidarietà Digitale. Motivo? Be’, innanzitutto è da considerare che il potenziale bacino di utenza di 15/16 milioni è quadruplicato dopo due giorni.

Va detto che Amazon non è l’unica ad aver ripensato la propria partecipazione al progetto Solidarietà Digitale, l’iniziativa del Ministero per l’Innovazione tecnologica e la Digitalizzazione per promuovere i servizi gratuiti che aziende e associazioni hanno messo a disposizione della cittadinanza colpita dall’emergenza sanitaria. Altri servizi sono comparsi e poi spariti: ai residenti delle zone interessate dal decreto ministeriale, ad esempio, il provider Eolo aveva offerto un mese di connettività gratuita (ritirato), mentre Mondadori aveva pensato di offrire gratuitamente un e-book gratis a tutti, poi limitato a 10mila copie, a cui però ha aggiunto 10mila abbonamenti digitali per tre mesi ad un magazine. Il Gruppo GEDI (editore de La Repubblica, La Stampa, Il Mattino di Padova) aveva offerto abbonamenti gratuiti per tre mesi alla popolazione della Lombardia e delle 14 province indicate nel provvedimento di domenica, salvo poi ridimensionare a 25mila il numero degli abbonamenti offerti a tutta l’Italia. Va anche detto, inoltre, che Amazon non si è ritirata completamente: è rimasta la proposta di webinar di formazione per docenti della scuola primaria e secondaria di I° grado. E c’è chi ha pensato addirittura di rilanciare, come Mediaset che ha deciso di raddoppiare l’offerta della piattaforma Infinity, passando da uno a due mesi gratuiti di prova del servizio.

Ma quanto sono disinteressate queste partecipazioni al progetto Solidarietà Digitale? A me questi dietrofront fanno pensare al fatto che – per certe aziende – l’allargamento del bacino di utenza abbia reso meno conveniente un’operazione con il retrogusto di un’iniziativa di marketing mirata ad accalappiare clienti, da consolidare successivamente con servizi a pagamento una volta superata (auspicabilmente) l’emergenza sanitaria.

Chapeau invece ad Armani, Esselunga, Eurospin, Unicredit, Intesa Sanpaolo e altre aziende, che hanno pensato direttamente a donazioni in denaro da destinare ad ospedali e all’acquisto di materiali utili all’emergenza. Certo, rendere note queste iniziative offre grande visibilità, ma trattandosi di aiuti concreti sono comunque da apprezzare. Last but not least, menzione d’onore per due gruppi di tifosi: gli ultrà dell’Atalanta avevano acquistato il biglietto per vedere la partita con il Valencia; la partita a porte chiuse ha impedito loro di partecipare, così hanno preferito devolvere il rimborso del biglietto all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Stesso discorso per i tifosi della Roma, che dovendo rinunciare alla partita con il Siviglia, hanno deciso di girare il rimborso del biglietto all’Ospedale Spallanzani di Roma.

 
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Pubblicato da su 11 marzo 2020 in news

 

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Telelavoro, smart working, didattica a distanza. Ci voleva il coronavirus?

Necessità di limitare gli spostamenti, scuole chiuse, zone rosse, rischi di contagio: la diffusione epidemica del nuovo coronavirus obbliga ad alcuni cambiamenti nello stile di vita, resi necessari dalle varie misure di contenimento, adeguate giorno per giorno da chi ha la responsabilità di salute e ordine pubblico. Questi cambiamenti hanno portato alla “scoperta” di opportunità già esistenti, ma finora ignorate da molti per impreparazione o refrattarietà culturale, cioè il telelavoro, lo smart working e la formazione a distanza.

I primi due spesso sono confusi ed erroneamente identificati nello stesso concetto, ma anche se possono avere alcuni punti in comune, si tratta di due approcci diversi:

  • il telelavoro (lavoro a distanza) permette di lavorare altrove rispetto al posto di lavoro, solitamente a casa propria, con l’ausilio di strumenti tecnologici che consentono di mantenere un collegamento con la sede lavorativa, nel rispetto degli orari stabiliti dal datore di lavoro, che possono favorire anche la contemporaneità lavorativa con altri colleghi;
  • lo smart working permette di non essere legati ad un unico luogo in cui svolgere il proprio lavoro; può trattarsi di casa propria, di una sede staccata o anche di una panchina al parco; a differenza del telelavoro non ci sono obblighi sul rispetto dell’orario, ma obiettivi da raggiungere. Per favore, però, evitiamo l’etichettatura lavoro agile: si tratta di una prestazione lavorativa (o collaborazione) gestita autonomamente.

La recente crescita italiana di queste attività svincolate dal posto di lavoro è conseguenza dell’emergenza sanitaria di questo periodo. Certo non è sempre possibile avvalersi di queste possibilità in un Paese di piccole e medie imprese, molte delle quali con attività manifatturiera, ma con lo sviluppo dei servizi non è impensabile estenderne la diffusione. Fino allo scorso anno in Europa gli italiani che lavoravano in una di queste forme erano il 4,8%. Per fare un confronto rapido: nei Paesi Bassi si sfiora il 36% di lavoratori che sfruttano queste possibilità, in Svezia il 35%. Vedremo se e come evolverà la situazione in questo senso.

Ma anche il mondo dell’istruzione può – anzi deve – evolversi in questo senso, e qui credo che l’argomento meriti una migliore messa a fuoco. Le scuole chiuse stanno facendo emergere esigenze importanti, non solo perché gli studenti si devono mantenere in esercizio (e quindi gli insegnanti devono assegnare compiti a casa in modo alternativo a quello consueto), ma anche perché si deve seguire quella programmazione che la sospensione e la chiusura dell’attività scolastica hanno interrotto. In quest’ottica, le nuove tecnologie della comunicazione possono essere di supporto alla didattica a distanza. Ma le nostre scuole sono pronte a questo? Insegnanti e studenti sono dotati di risorse e strumenti adeguati?

Quando si è parlato dell’utilizzo degli smartphone a scuola ho avuto modo di evidenziare:

In buona parte delle nostre scuole oggi mancano infrastrutture tecnologicamente adeguate (soprattutto in termini di connettività – ad Internet e interna – e di attrezzature) e sul fronte degli insegnanti è necessario provvedere ad una formazione idonea all’acquisizione di competenze mirate in tal senso. Naturalmente attuare tutto questo non è possibile senza provvedere ai necessari investimenti in questa direzione, un presupposto fondamentale per porre le basi di un serio processo di alfabetizzazione digitale.

In mancanza d’altro, troviamo insegnanti volenterosi che inviano materiale didattico ai propri studenti tramite mail o messaggi WhatsApp, tentativo lodevole all’insegna del “si fa quel che si può”. Ma questa non può essere LA soluzione, anche se supera in modo rudimentale due considerevoli lacune: la mancanza di una piattaforma scolastica per la didattica a distanza e il digital divide culturale di una parte degli insegnanti e degli studenti (e no, nel 2020 la frase “non sono tecnologico” non ha più giustificazione: con uno smartphone sono tutti pronti a chattare e diventare leoni da tastiera, a scattarsi selfie, a pubblicare “stati” e “storie” con foto ritoccate e filtrate, a utilizzare app più o meno utili… ma nel momento in cui c’è una funzione seria e utile da imparare con pochi click, sembra che nessuno sia in grado di farlo).

Le scuole possono trovare una soluzione sfruttando vari supporti: il primo è quello del Ministero dell’Istruzione, che ha messo loro a disposizione la pagina web Didattica a distanza, che offre l’opportunità di utilizzare materiali multimediali Rai per la didattica, Treccani scuola, Fondazione Reggio Children – Centro Loris Malaguzzi e di piattaforme per la formazione a distanza.

Una proposta a mio avviso interessante è inoltre quella di INDIRE – Istituto Nazionale Documentazione Innovazione Ricerca Educativa: sul loro sito web è disponibile edmondo, che viene presentato come “un mondo virtuale 3D online, dedicato esclusivamente a docenti e studenti per l’innovazione della didattica in classe”. Una sorta di Second Life declinato al mondo della didattica, dove questo tipo di mondo virtuale può trovare un’applicazione sicuramente proficua.

Va però ricordato che Indire, inoltre, ha organizzato un’iniziativa di solidarietà tra scuole con il supporto delle reti Movimento “Avanguardie educative” e Movimento delle “Piccole Scuole”, che si presentano pronte alla collaborazione con docenti e dirigenti scolastici degli istituti scolastici che ne faranno richiesta per offrire la propria esperienza nell’utilizzo di tecniche didattiche e strumenti innovativi. L’iniziativa si chiama “La scuola per la scuola” e vi hanno già aderito molti istituti.

Non mancano le soluzioni offerte da due grandi aziende tecnologiche, come Google e Microsoft, attive in questo settore rispettivamente con GSuite for Education e Office 365 Education A1. In tutta onestà, però, sarei molto riluttante ad utilizzare la piattaforma di e-learning di Google: è un’azienda che ha come core business l’utilizzo di dati a scopo di profilazione, per cui non mi meraviglierei se sfruttasse i dati acquisiti dagli studenti italiani per le proprie attività. Verificherei bene le condizioni di utilizzo dei dati conferiti alla piattaforma, prima di avere sorprese.

Per questo motivo – e vista la nulla attenzione al software libero, che le istituzioni dovrebbero invece promuovere – probabilmente punterei su una soluzione come Weschool, una validissima piattaforma per la didattica integrata, che consente a studenti e professori di condividere qualsiasi tipo di contenuto, collaborare a lavori di gruppo, giocare, fare esercizi e ottenere feedback in tempo reale. Nella piattaforma è possibile trovare video, articoli, corsi, video quiz, libri di testo, prodotti collaborativi, lavori di gruppo.

Per quanto riguarda “semplici” strumenti di condivisione di lezioni, si possono sicuramente citare ad esempio Jitsi.org , Zoom.us, Big Blue Button. Esistono inoltre risorse “pronte all’uso” come quelle reperibili su Risorsedidattiche.net e Redooc.

Sicuramente esistono altre soluzioni, tutto sta a vedere quali rappresentano meglio le esigenze di insegnanti e studenti. Questo spazio rimane disponibile per eventuali segnalazioni: si tratta di voler seriamente iniziare e proseguire un percorso. Forse il nuovo coronavirus ha dato lo stimolo per partire.

 
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Pubblicato da su 8 marzo 2020 in news

 

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E-book, IVA al 4% e Italia in infrazione

La nuova puntata sul tema IVA applicata agli e-book vede l’Italia decisa ad applicare l’aliquota del 4% (come per i libri cartacei), e il conseguente rischio di apertura di una procedura di infrazione da parte dell’Unione Europea che – come spiegato nelle puntate precedenti – concepisce (ostinatamente) l’e-book non come un bene, ma come un servizio, e pertanto dal punto di vista formale e fiscale va trattato come un software. Qui la posizione espressa in merito dal ministro Dario Franceschini:

Si tratta sostanzialmente di una obiezione di coscienza, in cui il nostro Paese si presenta allineato a Francia e Lussemburgo (mentre almeno una decina di Stati UE ritengono che la tassazione degli e-book debba essere differente da quella dei libri) e ha scelto di farlo in un momento alquanto significativo: dal gennaio 2015, al fine di arginare la concorrenza fiscale tra i mercati nazionali, per tutti i Paesi UE si completerà l’entrata in vigore il Sistema comune di imposta sul valore aggiunto.

 

 
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Pubblicato da su 11 dicembre 2014 in news

 

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Dimmi cosa cerchi e ti dirò chi sei

ClassificheSearch2014

Dicembre, tempo di bilanci e di classifiche. Questi sono i risultati – provvisori – dei termini più ricercati dagli utenti italiani nel 2014.

 

 

 

 
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Pubblicato da su 5 dicembre 2014 in curiosità, news

 

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Più slot ci sono, più si gioca (e più si perde)

slot-machine

Wired ha pubblicato oggi un’inchiesta sul mondo delle slot machine in Italia, curata da Raffaele Mastrolonardo e Alessio Cimarelli. Leggerla è interessante per capirne i numeri, ma anche per due aspetti correlati che non tutti considerano.

Il primo riguarda la salute:

L’incrocio tra la concentrazione territoriale degli esercizi e le statistiche sanitarie mostra che la diffusione delle macchinette va a braccetto con il rischio di patologie legate all’ azzardo e di dipendenze, in particolare tra i giovani. In questo caso il veicolo non sono più i mini-casinò ma le sale giochi, spazi nati per i videogame ma che spesso ospitano anche slot machine. Questa correlazione è confermata dall’incrocio tra i nostri dati e quelli di European School Project on Alcohol and Other Drugs, la più accurata indagine sulle dipendenze giovanili. Su questo fronte il caso della Calabria è emblematico. La regione detiene il record per questi locali (quasi 30 ogni 100mila persone) e registra la più alta incidenza di giovani giocatori problematici o a rischio(4,7%). Al polo opposto la Liguria: 6,8 sale giochi con slot machine ogni 100mila persone e solo 2,5% di giovani in difficoltà. “ La correlazione è significativa”, osserva Sabrina Molinaro del Cnr di Pisa, che ha avuto accesso alle nostre analisi. “ A colpire è la dimensione del fenomeno nel Mezzogiorno”.

Il secondo riguarda l’erario:

Dice la Corte dei Conti che l’erario, nel 2012, ha incassato più di 4,5 miliardi di euro dalle slot machine.

Conseguenza:

Soprattutto in tempo di crisi pare difficile che lo stato rinunci a ricavi di queste dimensioni anche se l’impatto degli apparecchi sulla salute dei giovani, dicono i nostri dati, è quantomeno sospetto e meriterebbe di essere approfondito.

 
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Pubblicato da su 2 luglio 2013 in News da Internet

 

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Telecom Italia, ok alla rete compartecipata

Telecom Italia ha approvato il progetto di societarizzazione della rete di accesso. Anche se con dinamiche da approfondire e con un percorso che avrà tempi verosimilmente lunghi, è un piccolo passo verso un’unica rete di telecomunicazioni nazionale, che consentirà di evitare sovrapposizioni tra reti di operatori differenti e di concentrare investimenti e innovazione su un’infrastruttura condivisa, partecipata da più Società (e non da un unico titolare, che vi investe – legittimamente – in funzione delle proprie possibilità e della propria convenienza).

 
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Pubblicato da su 31 Maggio 2013 in news

 

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Italia OnLine, rinata da Libero e Matrix

ItaliaOnLine

 

La notizia del ritorno di Italia OnLine fa tornare indietro la memoria di qualche anno. E’ lo stesso nome di un Internet Service Provider nato nel 1994, il cui portale costituì in quegli anni uno dei punti di riferimento per chi iniziava a navigare in Internet in Italia. Si abbreviava con IOL, quasi a richiamare un’italianizzazione del ruolo da protagonista che aveva AOL). Il logo è simile a quello di allora, ma adesso è una realtà ben diversa, molto più strutturata e articolata in varie soluzioni, si occupa di pubblicità e servizi Internet alle imprese, e nel mercato web italiano è alle spalle di Google e Facebook.

 
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Pubblicato da su 8 febbraio 2013 in business, Internet

 

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E’ nato l’Osservatorio sulla censura di Internet in Italia

Qualche numero dall’Osservatorio sulla censura di Internet in Italia realizzato da Marco d’Itri:

5.495 siti web sono attualmente censurati in Italia

  • 45 con singoli provvedimenti dell’autorità giudiziaria o di organi amministrativi
  • 1.153 dal CNCPO (Centro Nazionale per il Contrasto della Pedopornografia Online).
  • 4.297 da AAMS (Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, già Azienda Autonoma dei Monopoli di Stato).

Come spiega la pagina Tecnologie del sito dell’Osservatorio, la censura in Italia viene attuata dagli Internet Service Provider con una o entrambe questi sistemi:

  • Falsificazione del dominio – L’ISP configura i name server usati dai propri clienti in modo che rispondano che il dominio non esiste, oppure che dirigano la richiesta verso specifici server web contenenti una pagina di errore.
  • Intercettazione del traffico verso l’IP – L’ISP agisce sulla propria rete in modo che il traffico diretto al IP del server che ospita il sito censurato non sia inoltrato a destinazione.

E’ utile sottolineare che la censura attuata con questi metodi è facilmente aggirabile, utilizzando name server alternativi. Molti utenti, per motivi assolutamente legittimi, fanno già uso di servizi differenti che non risentono del provvedimento censorio e anche per questo motivo – come conclude oggi Marco Valerio Principato su The New Blog Times – la censura attuata in questo modo è solamente un meccanismo dall’efficacia nulla e dai costi tutt’altro che nulli, sia per i provider, sia per le Istituzioni.

 
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Pubblicato da su 9 gennaio 2013 in Internet, Net neutrality

 

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Agenzia per l’Italia digitale

Una buona notizia e un cattivo segnale: la prima consiste nell’istituzione dell’Agenzia per l’Italia digitale, che – spiega il Sole 24 Ore citando il ministro Corrado Passera – “sarà un’unica semplificata entità e dovrà diventare il motore dei progetti che saranno messi in pista già da quest’estate – con l’atteso decreto Digitalia ormai quasi pronto – per ridurre il cosiddetto digital divide. Il secondo è che, a tuttoggi, ancora una volta siamo solo alle parole e non ai fatti.

 
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Pubblicato da su 17 giugno 2012 in istituzioni, Mondo, news

 

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