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Rousseau e il sondaggio elettronico

Tocco solamente per aspetti tecnici l’argomento Rousseau, intendendo indicare con tale nome ovviamente la Piattaforma Rousseau, il “sistema operativo” del MoVimento 5 Stelle, utilizzato ieri dalle 10 del mattino per la consultazione popolare riguardo all’autorizzazione del tribunale di Catania a procedere nei confronti di Matteo Salvini, vicepresidente del consiglio e ministro dell’Interno, per l’accusa di sequestro di persona per il caso della Nave Diciotti.

Tecnicamente nella giornata di ieri sulla piattaforma sono stati rilevati svariati problemi tecnici, dalla lentezza alla vera e propria impossibilità ad accedere: inizialmente previste dalle 10 alle 19, le operazioni di consultazione sono state spostate di un’ora (e quindi aperte dalle 11 alle 20) per poi essere ulteriormente prorogate fino alle 21.30. Problemi dovuti verosimilmente ad una notevole affluenza – cioè ad un numero di richieste da parte degli utenti – sicuramente superiore alle capacità ricettive del sistema (problemi simili erano già stati rilevati in altre occasioni). Le difficoltà potrebbero anche essere state causate da un attacco informatico (anche qui ci sono dei precedenti, ricordiamo gli attacchi degli hacker EvaristeGalois e R0gue0, che era riuscito ad accedere alla piattaforma, prelevandone dati poi pubblicati), ma al momento l’ipotesi più accreditata è che si sia trattato di problemi dell’infrastruttura, apparentemente non in grado di sostenere operazioni di voto elettronico rivolte a decine di migliaia di utenti. Dopo le 15.30 è stata confermata l’operatività e la raggiungibilità del sistema.

Non mi interessa commentare le polemiche, rilevo solamente che – da quanto dichiarato ufficialmente – alle operazioni hanno partecipato 52.417 iscritti in una sola giornata. L’affluenza non deve rappresentare un problema in contesti simili. Se l’entità di questo riscontro costituisce realmente un problema per la piattaforma Rousseau, significa che la sua infrastruttura non è tecnicamente adeguata a gestire questo numero di richieste e utilizzarla per operazioni consultive, le definisco così senza parlare esplicitamente di “voto elettronico”, poiché ritengo che questo richieda ben altro livello di sicurezza per garantire certezza e anonimato, cioè oggettività che oggi non vedo raggiungibili, indipendentemente dalla tecnologia impiegata, neanche con la blockchain. Rimango dell’idea che operazioni di questo tipo possano essere definite “sondaggio”.

 

 
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Pubblicato da su 19 febbraio 2019 in news

 

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Cosa significa la multa dell’Antitrust ad Apple e Samsung

Se la memoria non mi inganna è la prima volta che un’authority “certifica” l’obsolescenza programmata di una serie di dispositivi tecnologici sanzionandone i produttori, in questo caso Apple (multata per 10 milioni di euro) e Samsung (per 5 milioni). Notizia nella notizia: questa sanzione viene dalla nostra Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, altrimenti conosciuta come Antitrust. Notizia implicita: si tratta di due aziende leader mondiali nel settore e la diffusione dei loro prodotti sul mercato è tale da rendere più roboanti le contestazioni mosse dall’Authority, che potrebbero aprire la strada a provvedimenti analoghi, da parte di altri organismi di vigilanza e nei confronti di altri produttori che seguono le stesse prassi.

Le motivazioni di questo provvedimento si leggono nel comunicato pubblicato dalla stessa authority:

Ad esito di due complesse istruttorie, l’AGCM ha accertato che le società del gruppo Apple e del gruppo Samsung hanno realizzato pratiche commerciali scorrette in violazione degli artt. 20, 21, 22 e 24 del Codice del Consumo in relazione al rilascio di alcuni aggiornamenti del firmware dei cellulari che hanno provocato gravi disfunzioni e ridotto in modo significativo le prestazioni, in tal modo accelerando il processo di sostituzione degli stessi.

Entrambi i produttori sono stati colpiti dal provvedimento perché, secondo l’AGCM, avrebbero tempestato gli utenti con caldi suggerimenti di effettuare il download e l’installazione degli aggiornamenti anche su smartphone che non sarebbero stati capaci di supportarli (e sopportarli), senza offrire reali possibilità di uscita attraverso un rollback (cioè il ripristino ad una condizione precedente) e inducendoli ad acquistare un nuovo smartphone per l’appesantimento funzionale conseguente all’aggiornamento installato.

E’ proprio con la frase “accelerando il processo di sostituzione degli stessi” che l’Antitrust contesta a Apple e Samsung la pratica dell’obsolescenza programmata, che si verifica quando i produttori pianificano una scadenza alla vita utile di ciò che producono e vendono, inducendo gli acquirenti a liberarsene per acquistarne di nuovi, andando a generare – come conseguenza diretta – un aumento del volume d’affari dei produttori, ma anche del volume dei RAEE (Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche), destinato ad una crescita progressiva a motivo dell’evoluzione tecnologica che naturalmente riguarda anche gli smartphone, soprattutto da quando non sono più semplici telefonini. E questo aspetto implica che l’invecchiamento – o obsolescenza – di un dispositivo digitale non possa che essere rapido. In base a questo presupposto, il concetto di obsolescenza programmata potrebbe addirittura essere destituito di fondamento.

L’Antitrust però non ne sembra convinta e ha condotto l’indagine con la collaborazione del Nucleo speciale Antitrust della Guardia di Finanza, identificando alcune pratiche ben precise:

In particolare, Samsung ha insistentemente proposto, dal maggio 2016, ai consumatori che avevano acquistato un Note 4 (immesso sul mercato nel settembre 2014) di procedere ad installare il nuovo firmware di Android denominato Marshmallow predisposto per il nuovo modello di telefono Note 7, senza informare dei gravi malfunzionamenti dovuti alle maggiori sollecitazioni dell’hardware e richiedendo, per le riparazioni fuori garanzia connesse a tali malfunzionamenti, un elevato costo di riparazione.

Quanto a Apple, essa ha insistentemente proposto, dal settembre 2016, ai possessori di vari modelli di iPhone 6 (6/6Plus e 6s/6sPlus rispettivamente immessi sul mercato nell’autunno del 2014 e 2015), di installare il nuovo sistema operativo iOS 10 sviluppato per il nuovo iPhone7, senza informare delle maggiori richieste di energia del nuovo sistema operativo e dei possibili inconvenienti – quali spegnimenti improvvisi – che tale installazione avrebbe potuto comportare. Per limitare tali problematiche, Apple ha rilasciato, nel febbraio 2017, un nuovo aggiornamento (iOS 10.2.1), senza tuttavia avvertire che la sua installazione avrebbe potuto ridurre la velocità di risposta e la funzionalità dei dispositivi. Inoltre, Apple non ha predisposto alcuna misura di assistenza per gli iPhone che avevano sperimentato problemi di funzionamento non coperti da garanzia legale, e solo nel dicembre 2017 ha previsto la possibilità di sostituire le batterie ad un prezzo scontato. Nei confronti di Apple è stata altresì accertata una seconda condotta in violazione dell’art. 20 del Codice del Consumo in quanto la stessa, fino a dicembre 2017, non ha fornito ai consumatori adeguate informazioni circa alcune caratteristiche essenziali delle batterie al lito, quali la loro vita media e deteriorabilità, nonché circa le corrette procedure per mantenere, verificare e sostituire le batterie al fine di conservare la piena funzionalità dei dispositivi.

Ad Apple sono state contestate due pratiche scorrette (relative, tra l’altro, al funzionamento delle batterie al litio dell’iPhone) ed è per questo motivo che si è vista comminare una sanzione doppia rispetto a quella di Samsung, che però finora è stata l’unica a dare una propria risposta in merito alla vicenda, comunicando il proprio dissenso e la risoluta intenzione di ricorrere in appello.

Non ho ancora letto commenti di Apple, che mantiene evidentemente una posizione coerente con quanto ha sempre sostenuto e cioè di essere estranea all’obsolescenza programmata. Sicuramente è necessario considerare anche che si tratta di un produttore di dispositivi e di software, che in più gestisce i servizi legati ai propri prodotti, nonché un marketplace esclusivo. Tutte fonti di profitto che si aggiungono a quelle derivanti dalla vendita del dispositivo, e che motiverebbero Apple a fidelizzare i propri clienti, anziché a spingerli a sostituzioni frequenti.

Personalmente non mi interessa contestare la decisione dell’Antitrust, ma nel leggere i rilievi mossi alle due aziende, più che ad una consapevole obsolescenza programmata penso che il loro comportamento sia conseguenza di una pesante difficoltà di gestione della complessità di progettazione dei dispositivi. Sollecitare l’aggiornamento di uno smartphone che non può “reggerlo” è un errore. D’altro canto, inseguire prestazioni superiori comporta sempre un’accelerazione di passo: la prima causa di invecchiamento e obsolescenza di un dispositivo è l’uscita di una nuova versione con migliorie e nuove funzioni.

 
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Pubblicato da su 26 ottobre 2018 in cellulari & smartphone, news

 

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Il valore e i valori della vita non si riducono in un post

Non trovo nulla di sensato in questa storia raccontata dalla stampa (che richiamo nell’immagine qui riportata), in cui in seguito ad un incidente, una persona di passaggio vede una vittima e – come reazione immediata – si preoccupa solo di filmare la vicenda:

Non trovo nulla di sensato nemmeno nelle parole di questa dichiarazione raccolta dal Resto del Carlino:

«Ero sconvolto, sotto choc, volevo fare qualcosa per quel giovane a terra, mi hanno detto che non dovevo avvicinarmi, che stavano arrivando l’ambulanza e i carabinieri. Mi sono messo a filmarlo e a fare una diretta. Volevo condividere il mio dolore, mi sono sentito solo, nessuno che mi abbracciasse. Non cercavo lo scoop, giuro. Ora ho capito di aver sbagliato e chiedo scusa a tutti, alla famiglia soprattutto. Ma è anche colpa di questa società che vuole tutto in diretta e senza più valori. Ho chiamato in Vaticano per far dire una preghiera per Simone»

Non sono sconvolto dalle contraddizioni (“chi mi segue chiami aiuto” e “mi hanno detto che avevano già chiamato i soccorsi”), ne’ dalla “inversione di posizione” con la vittima (“mi sono sentito solo, nessuno che mi abbracciasse”), poiché comprendo che essere testimone di un incidente o delle sue immediate conseguenze possa generare un impatto sconvolgente: a colpirmi è il fatto che la prima reazione sia stata prendere lo smartphone e filmare l’accaduto in una diretta via Facebook.

In questa vicenda, la presunta necessità di condividere l’accadimento attraverso un social network ha sostituito gli istinti umani. Davanti a situazioni simili c’è chi corre a prestare aiuto, soccorso, protezione. C’è anche chi scappa, per istinto di sopravvivenza (propria), sentendosi incapace di sostenere una simile situazione. E c’è chi filma, perché c’è una società che vuole tutto in diretta. Il telefono va preso in mano per chiamare il 112, non per assecondare un’entità disumana a cui non interessiamo: questo nuovo istinto alla condivisione è frutto di una vera e propria intossicazione, un essere umano non può perdere di vista le priorità reali.

L’assurdità di questi istinti social ci viene confermata dall’esistenza di cartelli come questi, che sono lì a ricordarci – perché è diventato necessario che qualcuno ce lo ricordi – che il valore e i valori della vita non si riducono in un post.

 
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Pubblicato da su 23 ottobre 2017 in news

 

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Smartphone a scuola, problema o opportunità?

Dichiarandosi favorevole all’utilizzo degli smartphone in classe da parte degli studenti, Valeria Fedeli – responsabile del Ministero dell’Istruzione – ha avviato una discussione ovviamente divisiva:

“Lo smartphone è uno strumento che facilita l’apprendimento, una straordinaria opportunità che deve essere governata. Se lasci un ragazzo solo con un tablet in mano è probabile che non impari nulla, che s’imbatta in fake news e scopra il cyberbullismo. Questo vale anche a casa. Se guidato da un insegnante preparato e da genitori consapevoli, quel ragazzo può imparare cose importanti attraverso un media che gli è familiare: internet. Quello che autorizzeremo non sarà un telefono con cui gli studenti si faranno i fatti loro, sarà un nuovo strumento didattico”

In merito a questo argomento io stesso sono stato interpellato dieci anni fa nell’ambito di un’inchiesta sul bullismo a scuola. I tempi sono cambiati e in questi dieci anni abbiamo assistito al passaggio epocale dal telefono cellulare allo smartphone, da uno strumento di comunicazione che poteva essere più che altro fonte di distrazione ad un dispositivo dotato di molteplici funzionalità.

Oggi come allora io non sono contrario alla presenza del telefonino in classe: le sue potenzialità non sono poi così lontane da quelle di un pc e, nell’ambito didattico, si potrebbe addirittura rivelare un utile sussidio. Per questo motivo ritengo che l’utilizzo virtuoso dello smartphone, attraverso un inserimento progressivo, possa essere insegnato nell’ambito scolastico, ovviamente – proprio come dice Valeria Fedeli – da insegnanti preparati in un contesto strutturato e agevolato da un ambiente familiare consapevole.

Ma ne sto parlando in prospettiva futura, perché in questo momento non ne vedo l’opportunità. A mio parere, anzi, favorire oggi l’uso dello smartphone a scuola è un po’ come tentare di costruire una casa partendo dal tetto: credo infatti sia indispensabile che la sua introduzione debba essere il risultato di un percorso basato su un progetto ben studiato, con premesse solide e mantenuto in costante aggiornamento. Esistono criticità da risolvere prima: in buona parte delle nostre scuole oggi mancano infrastrutture tecnologicamente adeguate (soprattutto in termini di connettività – ad Internet e interna – e di attrezzature) e sul fronte degli insegnanti è necessario provvedere ad una formazione idonea all’acquisizione di competenze mirate in tal senso. Naturalmente attuare tutto questo non è possibile senza provvedere ai necessari investimenti in questa direzione, un presupposto fondamentale per porre le basi di un serio processo di alfabetizzazione digitale.

E’ in questo tipo di percorso che deve essere inserito l’impiego dello smartphone a scuola, affinché la sua presenza non sia controproducente. Laddove viene lasciato al libero utilizzo da parte degli studenti diventa un freno: una ricerca pubblicata due anni fa dal «Centro per le performance economiche» della London School of Economics, in cui sono stati esaminati i risultati scolastici in 91 scuole superiori inglesi, ha confrontato i registri degli esami e le politiche sull’uso dei cellulari tra il 2001 e il 2013, rilevando che le classi in cui smartphone e gadget digitali erano banditi registravano voti migliori del 6,41% rispetto alle classi in cui non erano vietati, valore equivalente – secondo i ricercatori – a “un aumento della probabilità di passare gli esami finali del 2%”, lo stesso effetto “che si potrebbe ottenere con un’ora in più a settimana, o aggiungendo una settimana in più all’anno scolastico”.

Tornando, dunque, all’opportunità di avere infrastrutture pronte, insegnanti preparati e un ambiente familiare consapevole, credo che questo sia un obiettivo fondamentale da raggiungere, affinché le auspicate linee guida – di cui si occuperà la commissione ministeriale – possano essere seguite e applicate correttamente dai docenti e, di conseguenza, dagli studenti, con particolare attenzione (auguri!) a favorire un utilizzo intelligente e ad evitare che si verifichino fenomeni discriminatori o comunque sgradevoli.

Altrimenti meglio non parlarne neppure.

 
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Pubblicato da su 14 settembre 2017 in tecnologia

 

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Trump “andrà a comandare” anche in Rete?

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Non sono spaventato dal fatto che Donald Trump (pronto a prendere il posto di Barack Obama alla Casa Bianca) abbia poca dimestichezza con la tecnologia, ne’ per la sua manifesta avversione nei suoi confronti, anche se per alcuni aspetti trovo condivisibili le perplessità manifestate da molti addetti ai lavori sulle prospettive che potrebbero delinearsi. Certamente non spreco applausi, ne’ scuoto la testa, poiché semplicemente non so con certezza quali siano le reali prospettive all’orizzonte.

Trump ha raggiunto il suo obiettivo muovendosi con una campagna elettorale affatto diplomatica, ha riscosso un consenso mediatico pressoché nullo eppure ha vinto. E ora possiamo solo prevedere che il suo mandato possa riflettere la sua personalità, ma non possiamo sapere in che modo la sua attività presidenziale sarà condizionata dal suo entourage di staff e consiglieri. Certo, ciò che ha espresso finora non ha nulla a che vedere con l’approccio alla tecnologia manifestato da Hillary Clinton, testimoniato anche dall’appoggio ricevuto da molti grandi nomi del settore e dalla lettera aperta firmata contro Trump dalle stesse persone. Alcuni osservatori, inoltre, sottolineano quanto molte posizioni espresse da Trump, in materia di tecnologia (ma non solo) siano spesso contraddittorie.

Limitandomi ad un punto di vista tecnologico, tuttavia, constato che il World Wide Web ha visto la luce nei primissimi anni ’90, in seguito ad una proficua attività di ricerca, sviluppo e implementazione condotta nei decenni precedenti. Erano gli anni della presidenza di George Walker Bush (1989/1993), che come predecessore ebbe Ronald Reagan (1981/1989), repubblicani conservatori e non propriamente moderati. Di Reagan molti sottolinearono mediocrità e inadeguatezza, tuttavia l’evoluzione in corso non fu frenata dai suoi otto anni di presidenza. Non sto ovviamente esprimendo giudizi sul loro mandato in senso globale, ma rilevo che in quegli anni il mondo ha fatto passi da gigante e ha consolidato le basi di una tecnologia che oggi tutti conosciamo e utilizziamo.

Per questo auspico che l’apparente versione “trumpistica” di “Andiamo a comandare” vada a dissolversi e si trasformi nella convinzione che il percorso della tecnologia non possa essere fermato, ne’ fare inversione di marcia. “Facciamo il tifo perché abbia successo”, come ha detto Barack Obama nei confronti di Trump, confidando che non si tratti di un successo personale con vantaggi personali, ma di un successo a reale beneficio di coloro che è chiamato a rappresentare.

 

 
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Pubblicato da su 10 novembre 2016 in Mondo

 

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Il dispositivo del futuro è ad acqua

HydrogelTouchpad

Segnatevi questo nome: Hydrogel. Si tratta di un materiale composto per oltre il 90% da acqua. Utilizzato finora per programmi di scrittura e videogame, potrebbe essere la base della tecnologia per realizzare wearable device, i dispositivi indossabili. Come il touchpad realizzato dall’Università nazionale di Seul coordinato da Chong-Chan Kim, di cui parla Science.

 

Anche se diversi tipi di conduttori, come i nanotubi di carbonio e i nanocavi di metallo, sono stati studiati per display elastici, sono però tutti basati su materiali duri. Per ovviare a questo problema, i ricercatori hanno sviluppato un display fatto di idrogel, cioè una rete di polimeri che tendono ad assorbire acqua, morbidi e molto elastici. Hanno impiegato un idrogel con dei sali di cloruro di litio, che agiscono da conduttore e aiutano a trattenere l’acqua. (dall’articolo odierno pubblicato dal Corriere delle Comunicazioni)

Per le sue caratteristiche di flessibilità ed elasticità, con il prototipo realizzato è possibile effettuare le stesse attività permesse da un normale touchpad: spostare un puntatore, effettuare selezioni, e quindi dare dei comandi per programmi e giochi, con il vantaggio di poterlo indossare, senza preoccuparsi troppo di pressioni ed eventuali “allungamenti”: nelle prove dimostrative si è dimostrato funzionale anche dopo essere stato allungato del 1000% (dieci volte le sue dimensioni).

E’ verosimile pensare che gli sviluppi e le future applicazioni di questa tecnologia la porteranno nel mondo oggi dominato da smartphone e smartwatch, nell’elettronica di consumo, e potrebbe beneficiarne anche l’evoluzione dei dispositivi medici. Se fosse impiegata nella realizzazione di display touchscreen innovativi, potrebbe realmente rivoluzionare il mercato dei dispositivi mobili.

 

 

 

 
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Pubblicato da su 12 agosto 2016 in news

 

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Brexit, conseguenze su economia digitale e innovazione

Su AgendaDigitale c’è l’interessante riflessione “Brexit: le conseguenze sull’economia digitale e l’innovazione” che illustra le ricadute “digitali” del risultato referendario sulla Gran Bretagna e i possibili cambiamenti di scenari e protagonisti nel settore.

E’ tutta da leggere, io evidenzio solo quanto mi ha colpito maggiormente:

  1. A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, invece che mezzo vuoto, si può pensare che si aprono nuove prospettive per altre zone che volessero candidarsi a diventare la nuova Silicon Valley europea. Secondo Sacco, le piazza alternative a Londra sono Francoforte, Parigi, Milano. La capitale francese ha il problema dello scetticismo americano, determinato anche dal fatto che non si parla inglese. Francoforte, continua Sacco «è una città molto piccola, non è l’ideale per l’innovazione». Milano, paradossalmente, potrebbe avere una carta da giocare. «Lo dico a malincuore, ma potrebbe essere una valida opportunità». Perché a malincuore? Perché la Brexit è un colpo molto difficile «per tutto il continente, per il progetto europeo, per quello che voleva dire. Non sarà una periodo facile da affrontare».
  2. Carnevale Maffè, invece, ritiene che le due alternative migliori siano Dublino e Francoforte. Milano, e l’Italia, scontano un contesto normativo non certo ideale per il fare impresa, Parigi è penalizzata dal fattore linguistico. Perché Dublino? Perché «l’Irlanda ha una tassazione favorevole sulle attività economiche, parla inglese, uno status giuridico sostanzialmente simile a quello britannico, ad esempio sul fronte della protezione della proprietà intellettuale, già oggi è sede di istituzioni finanziarie e di asset management europee. E’ uno dei candidati più semplici», conclude il docente, che come seconda opzione cita invece Francoforte, che rispetto a Dublino vanta migliori comunicazioni (ad esempio, l’aeroporto).

Da problema a opportunità?

 

 

 

 

 
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Pubblicato da su 27 giugno 2016 in news

 

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Banda larga, arriva piano

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L’Italia – lo ha annunciato ieri il presidente del consiglio Matteo Renzi – ha il suo piano per la banda larga. Di nuovo.

Fosse la prima volta che se ne parla: la legge finanziaria 2003 (art. 89) prevedeva già incentivi per favorire la diffusione della larga banda (sì, per un certo periodo l’hanno chiamata così), perché fin da allora il Governo dichiarava che “Lo sviluppo della larga banda in Italia è considerato un obiettivo prioritario di politica economica e una condizione essenziale per lo sviluppo economico del Paese”, tanto che con decreto del Ministro delle Comunicazioni e del Ministro per l’Innovazione e le Tecnologie fu istituito il Comitato esecutivo interministeriale per la diffusione e lo sviluppo della larga banda che definì le Linee guida del piano nazionale per la diffusione e lo sviluppo della larga banda.

In questi anni non è rimasto tutto fermo. Ma da allora, in Italia, di anno in anno a livello istituzionale si rinnova il tema come a dire “Ecco il nostro piano, da oggi si cambia marcia” e poi tutto procede con i tempi consentiti, da un lato dalla politica e da stanziamenti che prima arrivano e poi spariscono per altre destinazioni, dall’altro dai progetti di investimento degli operatori.

Il tutto avviene in un contesto ben più complesso di quanto i cittadini possano percepire, nonostante le pubblicizzate soluzioni che millantano velocità smodata su fibra. L’Osservatorio Trimestrale AGCOM rileva (dati disponibili aggiornati a marzo 2015) che gli accessi su linea fissa con velocità di almeno 10 Mbps sono 3,2 milioni, ma le linee broadband di nuova generazione (NGA) sono poco più di 900mila e rappresentano il 4,4% delle linee complessive.

Anche oggi c’è da sperare, come per i piani annunciati in precedenza, che questo sia il punto di partenza della svolta perché l’annuncio del (nuovo) piano è accompagnato da una promessa ambiziosa: “Nella banda larga saremo leader in Europa nel giro di un triennio, oggi siamo l’ultima ruota del carro”. La conclusione è sicuramente vera, per la promessa prendiamo nota.

 
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Pubblicato da su 7 agosto 2015 in news, TLC

 

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Quando vi dicono che è colpa di Internet…

itscomplicated[1]

Quando qualcuno indica in Internet e nei social network la causa principale di tematiche serie che riguardano i ragazzi, come bullismo e cyberbullismo, hate speech (i cosiddetti discorsi d’odio con cui si manifesta intolleranza e odio verso una persona o un gruppo sociale in base a razza, etnia, religione, l’orientamento sessuale o quello politico, identità di genere o altre particolari condizioni fisiche o sociali) e altre problematiche, suggeritegli la lettura del libro It’s complicated di Danah Boyd (potete acquistarlo, o scaricarlo dal sito danah.org), che documenta una ricerca lunghissima (iniziata nel 2005 e conclusa nel 2012) sulle vite connesse di molti ragazzi e le spiega agli adulti.

Il titolo è perfetto: It’ complicated, è complicato, perché affrontare queste problematiche non è affatto semplice e individuare il colpevole in uno strumento tecnologico è facile. Ed è sbagliato. Perché una tecnologia non intacca problematiche sociali e culturali.

 
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Pubblicato da su 28 febbraio 2014 in Internet, ricerche

 

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Il digital divide colpisce ancora

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Dalla decima edizione dell’Annuario Scienza Tecnologia e Società di Observa Science in Society si apprende che in Italia il 37% della popolazione non ha mai usato Internet, ne’ un computer, mentre il consumo televisivo giornaliero è mediamente di 4,2 ore. Siamo non poco fuori dalla media europea, che indica i “tecnoesclusi” nel 20% della cittadinanza. I Paesi con più basso tasso di digital divide (almeno, in questo senso) sono la Svezia (in cui solo il 3% non ha un computer) e la Danimarca (4%).

Dall’agenzia Adnkronos: Flop digitale, 4 italiani su 10 non hanno mai usato internet e pc

Questi dati, sottolinea Saracino, “fanno emergere un’Italia che solo in una fascia specifica della popolazione, cioè i giovani under 40, accede alle nuove tecnologie, mentre registra un gap tecnologico ancora forte nelle fasce di età fra i 45-60 anni”. Un gap, continua Saracino, che “vede le donne maggiormente ‘tecnoescluse’ degli uomini”. Le donne, è l’analisi di Saracino, “usano meno le nuove tecnologie sia per la differente condizione occupazionale, cioè hanno un accesso inferiore al mondo del lavoro dove tipicamente si usano internet e pc, sia per il tipo di attività svolta, spesso lontana dalle tecnologie digitali”. Nel complesso, secondo Saracino, “dieci anni di dati ci dicono che il vero problema del gap digitale italiano non è l’assenza di una cultura scientifica”.

“Il nodo critico, in questi dieci anni, -osserva ancora Saracino – resta la fragilità di una cultura della scienza e della tecnologia nella società, di una cultura che sappia discutere e valutare i diversi sviluppi e le diverse implicazioni della scienza e della tecnologia evitando le opposte scorciatoie della chiusura pregiudiziale e dell’aspettativa miracolistica”.

Per “aprire le porte ad un maggiore accesso e uso delle tecnologie digitali -afferma la ricercarice- bisognerebbe spingere il nostro Paese verso una vera cultura scientifica” fasce ampie di popolazione.

E, riguardo la digitalizzazione ancora troppo lenta del nostro Paese, Saracino taglia corto: “L’apertura al digitale trova attenta solo la fascia giovanile degli italiani mentre un’ampia fascia di cittadini, i più ‘maturi’ non sembra alfabetizzata a sufficienza per utilizzare la rete al meglio delle possibilità”.

 
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Pubblicato da su 18 febbraio 2014 in computer, Internet, tecnologia

 

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Anche Nissan ha il suo smartwatch

NissanNismo

Ecco il Nismo Watch, smartwatch che si interfaccia con l’auto.

Al momento si tratta di un prototipo, ma la tecnologia utilizzata da Nissan per realizzarlo esiste già e presto potrebbe diventare un prodotto di serie. Le funzioni? Rilevazione e memorizzazione di prestazioni, consumi e dati biometrici del conducente, diffusione di messaggi della Casa automobilistica. Al momento non si conosce altro, ma il riserbo ha i giorni contati: il Nismo Watch sarà presentato tra pochi giorni al Salone di Francoforte.

Sicuramente, meglio di un orologio che deve essere interfacciato allo smartphone, o al tablet.

 
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Pubblicato da su 9 settembre 2013 in news

 

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Aveva inventato (anche) il mouse

douglas_engelbart_and_mouse[1]

Martedì scorso è scomparso Doug Engelbart, che tutti ricorderanno per essere stato – insieme a Bill English – l’inventore del mouse. Tuttavia è doveroso evidenziare che nel suo lungo lavoro sull’interazione uomo-macchina ha dato un notevole contributo ad altre innovazioni tra cui lo sviluppo delle reti, dell’ipertesto, del copia+incolla, dell’interfaccia grafica e, come si può constatare nel video che segue (una presentazione del 1968 universalmente nota come la madre di tutte le demo), della videocomunicazione.

 
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Pubblicato da su 4 luglio 2013 in cultura, news, tecnologia

 

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Per Google news, gossip e cronaca giudiziaria sono “Scienza e Tecnologia”


CoronaGnews

 

Rimango sempre affascinato dal modo con cui Google News riesce a classificare le notizie che aggrega, come quando la latitanza di Fabrizio Corona finisce in Scienza e Tecnologia.

 
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Pubblicato da su 21 gennaio 2013 in media, news, News da Internet

 

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Quando il gossip diventa Scienza e Tecnologia

GNews11122012

Pensatela come volete, ma se nella sezione Scienza e Tecnologia di Google News si infilano anche notizie sulla relazione tra Antonella Mosetti e Aldo Montano – semplicemente perché contengono riferimenti a Twitter Facebook – significa che nel sistema di classificazione delle news c’è ancora parecchio da migliorare.

 
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Pubblicato da su 11 dicembre 2012 in curiosità, Internet, media, News da Internet

 

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iParadossi

Un paradossale provvedimento del giudice inglese Colin Birss ha ordinato ad Apple di fare pubblicità a Samsung, per sanare la diffamazione che l’azienda di Cupertino avrebbe condotto sul produttore coreano sul design dei Galaxy Tab, che secondo il magistrato non sarebbe “as cool”, ossia non sarebbe figo quanto l’iPad: Apple, per sei mesi, attraverso il proprio sito web UK, dovrà dichiarare che Samsung non ha violato i suoi brevetti di design. Le stesse dichiarazioni dovranno essere pubblicate su spazi pubblicitari su Financial Times, Daily Mail,  Guardian Mobile magazine e T3.

Bloomberg aggiunge che il giudice avrebbe bloccato un’istanza con cui Samsung aveva chiesto di vietare ad Apple di dichiarare pubblicamente che i suoi brevetti di design erano stati violati, perché “They are entitled to their opinion” (“hanno diritto alla loro opinione”).

Eh?

 
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Pubblicato da su 23 luglio 2012 in business, diritto, News da Internet

 

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