
Solo io trovo assolutamente normale che TikTok – così come il profilo personale personale esistente su ogni altro social network – non debba trovare posto sui dispositivi dei dipendenti pubblici che hanno accesso ai sistemi dell’ente per cui lavorano? Ovviamente stiamo parlando di dispositivi “aziendali” e non di quelli privati, che non accedono ai servizi di telefonia mobile degli enti pubblici. Se lo smartphone o il tablet sono personali e sono attivi con account privati, che nulla hanno a che vedere con l’attività lavorativa svolta, naturalmente l’utente ha la massima libertà di usare qualunque app lecita gli interessi, chiaramente mantenendo un comportamento consapevole e sui rischi che si possono correre utilizzandola.
Il fatto che solo adesso le pubbliche amministrazioni si pongano il problema di un divieto fa pensare che finora non sia mai esistita un’indicazione in questo senso a livello di regolamento per i dipendenti, una regola banalmente basilare che deve essere sicuramente definita a scopo di sicurezza, ma in primo luogo per correttezza verso il “datore di lavoro”. Per cui – leggendo titoli e articoli sul “bando” di TikTok dagli smartphone aziendali dei dipendenti pubblici – si potrebbe pensare che al personale retribuito con il denaro dei contribuenti fosse consentito il trastullo attraverso un dispositivo pagato con il denaro dei contribuenti. Ovviamente non è così, tuttavia sembra sempre sia necessario perdere del tempo per vietare ciò che già non è consentito, solamente per il fatto di non essere specificamente ed espressamente vietato. Certo, sarebbe sufficiente adottare una soluzione di gestione centralizzata dei dispositivi mobili (MDM) per impedire a monte (e per tutti) ogni installazione di app non conforme all’attività lavorativa. Nelle organizzazioni in cui questo è stato già fatto, non esiste la necessità di ulteriori provvedimenti di divieto.
Il “bando” deriva dal fatto che i tecnici TikTok che lavorano in Cina – come riportato dal Guardian – hanno accesso ai dati personali degli utenti. Quali informazioni si possono ottenere? Sicuramente la posizione dello smartphone, le app installate, quanto tempo sono state utilizzate, i contenuti della rubrica dei contatti e del calendario. Quando gli utenti vengono invitati a condividere audio e immagini mentre utilizzano l’app, di fatto condividono quei contenuti multimediali con TikTok. Ora forse non tutti sanno che nel partito comunista cinese esiste una commissione di cui fanno parte alcuni dipendenti della ByteDance, l’azienda che è alle spalle di TikTok. I legami con il governo di Pechino sono dunque piuttosto stretti e questo induce molti addetti ai lavori a pensare che i dati personali degli utenti possano essere trasmessi a enti delle istituzioni cinesi, sebbene l’azienda l’abbia sempre smentito.
Questi presupposti a me basterebbero per spegnere ogni smania di utilizzo di TikTok, soprattutto se fossi nei panni di uno qualunque fra i politici italiani che da poco tempo hanno aperto un profilo su questo social, nella speranza di conquistare i voti dei suoi giovani frequentatori.
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Tag: Canada, Casa Bianca, cina, commissione europea, consapevolezza, cybersecurity, dipendenti pubblici, enti pubblici, EU, pa, politica, pubblica amministrazione, regole, sicurezza, social network, tiktok, UE, usa

Si inizia ad intuire il motivo per cui Elon Musk è interessato a Twitter: come detto in aprile, quando aveva manifestato l’intenzione di rilevare la piattaforma di social blogging – intenzione poi ritirata e ri-manifestata la scorsa settimana – Musk vuole conquistare il mondo social e l’acquisto di Twitter sarebbe “l’acceleratore per la creazione di X“.
Se avete presente WeChat, Weibo, Grab e Alipav, avete una vaga idea di ciò che potrebbe essere X che, nelle intenzioni di chi la sta pensando, dovrebbe essere una everything app, una piattaforma multifunzione per fare letteralmente un po’ di tutto, dalle comunicazioni ai pagamenti digitali, passando per il noleggio di veicoli e le ordinazioni di cibo da asporto. Magari aggiungendo una condivisione di contenuti TikTok-style.
Tutte funzioni decisamente estranee al Twitter di oggi, in cui Musk potrebbe però aver individuato quelle fondamenta che potrebbero abbreviare (di tre o cinque anni, azzarda) lo sviluppo della sua futura super-app.
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Tag: Alipav, Elon Musk, Grab, social network, twitter, WeChat, Weibo, x

Per un social network è importantissimo conoscere l’età dei propri utenti, sia per questioni legali (in Italia agli under 14 non è possibile aprire un profilo social) che per presentare agli utenti contenuti appropriati. Come sappiamo, fidarsi dai dati dichiarati all’iscrizione non è sufficiente e per questo motivo Instagram, per capire l’età dei propri utenti, ha annunciato che tenterà la carta del riconoscimento facciale.
Meta, il gruppo di cui Instagram fa parte insieme a Facebook, WhatsApp e altri servizi, potrebbe sicuramente investire in questa tecnologia e non è detto che non lo stia facendo. Per il momento ha preferito appoggiarsi a Yoti, azienda specializzata nel settore, che fornirà una soluzione di intelligenza artificiale con questo obiettivo. La funzione verrà impiegata inizialmente per gli utenti USA e poi verrà verosimilmente estesa al resto del mondo, e questa potrebbe essere la prima fase dell’introduzione di questa tecnologia anche sulle altre piattaforme social, in aggiunta ai sistemi di verifica già utilizzati, come il caricamento della carta di identità – che sappiamo non essere un sistema del tutto affidabile – e la richiesta di un “aiuto da casa”, altrimenti conosciuto come social vouching (la conferma dell’età da parte di tre follower maggiorenni dell’utente).
Chi volesse fare un test e verificarne l’affidabilità, può cliccare questo link: https://yoti.world/age-scan/. Come vedete nell’immagine che apre il post, con me è stato di manica larga 😆
The Verge riporta che le stime di Yoti sono meno accurate per utenti con carnagione scura, di sesso femminile e di età inferiore ai 24 anni, mentre Engadget alza il sopracciglio perché non ci sono informazioni sulla tecnologia utilizzata.
Riuscirà Meta ad impedire ai minorenni di accedere a contenuti per per adulti o servizi come Facebook Dating? Dite di sì? Anche quando davanti alla webcam metteranno la foto del nonno, ignaro di tutto?
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Tag: adulti, Dating, instagram, minori, riconoscimento facciale, social network, VM18, Yoti

Ultimamente mi è capitato di trovare inserzioni pubblicitarie relative ad app che promettono di svelarvi chi vi sta stalkerando online, cioè chi visita il vostro profilo sui vari social network. Funzionano? Sgombriamo il campo da ogni possibile dubbio: da Instagram e Facebook, oggi, ottenere questo risultato non è possibile, se l’obiettivo è quello di avere nome, cognome e numero di passaggi sul profilo.
Chiariamo un aspetto: tecnologicamente è possibile saperlo, tant’è che LinkedIn offre questa opzione (a pagamento), dando così agli utenti l’opportunità di sapere nome e cognome di chi ha visitato il loro profilo. Instagram e Facebook invece non lo permettono e nemmeno le varie app di terze parti che si possono trovare nei vari store.
Detto questo, facciamo luce per trenta secondi su quelle app/servizi che promettono di darvi informazioni su chi vi stalkera: se scaricate e utilizzate una di queste app non sarete agevolati nel rintracciare chi visita il vostro profilo, anzi… agevolerete chi ha sviluppato l’app nella raccolta di vostre informazioni personali e riservate, mettendole a disposizione di persone che non conoscete, perché queste app richiedono proprio l’accesso diretto al vostro profilo, attraverso le vostre credenziali personali, che non dovreste mai trasmettere a nessuno.
Vale la pena consegnare i vostri dati e le vostre credenziali a degli sconosciuti, che potrebbero addirittura impossessarsi del vostro account, solo per la curiosità di sapere chi visita il vostro profilo sui social network? No, non ne vale la pena. Quindi lasciate perdere.
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Tag: app, facebook, instagram, linkedin, social network, virtual stalking

L’interesse di Elon Musk per Twitter è il preludio per una “rivoluzione” nel mondo dei social network? Per provare a capirlo è necessario inquadrare i protagonisti di questa storia.
Twitter non è un social network come Facebook o Instagram: l’utente ha a disposizione una piattaforma meno versatile, deve rispettare un limite di 280 caratteri (il doppio di quei 140 caratteri consentiti inizialmente, che rendevano i tweet simili agli SMS), è limitato anche nelle reazioni e la sua parabola è ritenuta in declino. Ma ha circa 200 milioni di utenti giornalieri e 436 milioni di utenti attivi totali. Per questo motivo molto spesso è utilizzato da personaggi pubblici di ogni settore e dalle istituzioni, inoltre viene citato in occasione di notizie di importanza globale e anticipazioni da buona parte delle testate giornalistiche in tutto il mondo, non dimenticando che molte aziende hi-tech (Microsoft, Google, Apple e Meta, solo per citarne alcune di rilevanza mondiale) hanno account ufficiali su Twitter che sono veri e propri canali di comunicazione per trasmettere informazioni e addirittura aggiornare i propri utenti aggiornamenti su eventuali disservizi (se ad esempio c’è un down di Microsoft 365 o di Facebook, gli aggiornamenti della situazione vengono diffusi mediante Twitter).
Elon Musk ha al suo attivo iniziative imprenditoriali da cui sono nate aziende di successo (sviluppate e rivendute, utilizzando i proventi di queste cessioni per finanziare i progetti successivi): gli esempi più noti si chiamano Zip2 (che forniva ai giornali software per guide cittadine online), PayPal (strumento per trasferire denaro – e quindi effettuare pagamenti – online), SpaceX (una vera e propria azienda aerospaziale) e Starlink (un sistema satellitare di connettività a banda larga). Non è invece una sua creazione diretta Tesla (che produce auto elettriche e pannelli fotovoltaici), ma è entrato a farne parte poco dopo la fondazione della società, affiancandone i fondatori in veste di principale finanziatore, entrando poi nel consiglio di amministrazione e diventandone in breve tempo il numero uno che ha portato l’azienda ad essere la realtà che tutti conosciamo.
Potrebbe ripetere questa dinamica puntando su Twitter? Le sue mire in questa direzione sono diventate di dominio pubblico da qualche giorno, subito dopo l’utilizzo di questa piattaforma durante il conflitto tra Ucraina e Russia da parte dei vertici politici di Kiev come canale di informazione nei confronti della popolazione, ma anche per gli scambi intercorsi tra il governo e lo stesso Musk, che a fine febbraio ha spedito in Ucraina alcuni carichi di terminali Starlink per garantire connettività Internet via satellite laddove le armi russe hanno compromesso la rete del Paese.
All’inizio di aprile è stato reso noto che la sua quota societaria in Twitter aveva raggiunto il 9,1%, solo alcuni giorni dopo ha dichiarato che non sarebbe entrato nel consiglio di amministrazione della società. Un dietrofront? Tutt’altro, era l’anticipazione del rilancio: mercoledì scorso ha lanciato un’offerta per un valore di 43 miliardi di dollari, per assumere il controllo totale delle quote azionarie e, quindi, dell’azienda. E lo ha reso noto con un annuncio su Twitter, l’unico social network su cui è attivo e in cui conta circa 82 milioni di follower. In caso di rifiuto dell’offerta, Elon Musk ha dichiarato che sarebbe indotto a “riconsiderare la mia posizione come azionista”. La reazione di Twitter si può riassumere con tre parole: vi faremo sapere.
L’obiettivo dichiarato è assumerne il controllo per trasformarlo nella piattaforma della libertà di espressione: “Credo che la libertà di parola sia un imperativo per il funzionamento della democrazia”. Per questa trasformazione Musk punta a svincolare l’azienda dai mercati azionari per poterla gestire accentrandone il controllo sulla propria persona.
Libertà di parola e democrazia per gli utenti da una parte, controllo assoluto da parte di una sola persona dall’altra. Come si concilieranno? Sul mercato l’obiettivo dei social network è quello di contrapporsi alla leadership di Meta (Facebook, Instagram e WhatsApp). Sorprese in arrivo nell’uovo di Pasqua 2022?
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Tag: Elon Musk, facebook, instagram, Meta, paypal, social network, SpaceX, Starlink, Tesla, twitter, Zip2

Hackerato il social network russo Vkontakte, anche noto come Vk: lo annuncia Anonymous con un tweet pubblicato dall’account @AnonOpsSE.
L’obiettivo dell’iniziativa è contrastare i canali di informazione uffuciali, spedendo massivamente agli utenti – utilizzando l’account ufficiale di VKontakte – una serie di messaggi che informino sulla situazione in Ucraina con i dati sulle conseguenze del conflitto e i numeri delle vittime, militari e civili.
Gli attivisti hanno inoltre reso noto di avere (ovviamente) accesso anche alle informazioni condivise dagli utenti sul social network e alla messaggistica personale, per individuare i sostenitori del presidente Putin.
Vkontakte è l’ennesima “vittima” russa di Anonymous dopo altre istituzioni governative e la tv di Stato.
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Tag: Anonymous, hacker, hacking, russia, social network, Ucraina, Vk, vkontakte

Il conflitto in Ucraina – esploso fragorosamente la scorsa settimana, ma iniziato circa otto anni fa – ci viene illustrato e descritto in questi giorni da un flusso impressionante di immagini, video, post, testimonianze dirette e indirette provenienti da radio, tv, giornali e fonti di informazione sul web. La propagazione di tutto questo materiale veicolato dai social network fa riemergere la necessità di affrontare il sempre attuale fenomeno della disinformazione che, agevolata dalla frenesia del contesto, aumenta confusione e disorientamento. Facebook, Instagram, Twitter, YouTube e altri protagonisti si dichiarano impegnati su questo fronte. Ma con quale efficacia?
Risposta breve: l’efficacia sarà sempre scarsa perché, come abbiamo ormai imparato dalla storia recente, è e sarà sempre difficile contrastare le fake news, finché al mondo esisteranno punti di vista differenti, interessi opposti e – soprattutto – soggetti che non si fanno scrupoli a promuoverli in modo ingannevole nei confronti di persone predisposte ad accettarli senza approfondire. Con questi presupposti la disinformazione potrà anche cambiare mezzi e forme di diffusione, ma continuerà a sopravvivere e prosperare.
Ciò che si può fare – e qui inizia la risposta argomentata – è mettere in campo soluzioni per dimostrare che non sempre le informazioni sono attendibili, facendo in modo che non vengano sempre accettate in modo passivo e acritico, ma che possano essere valutate e confrontate in un contesto più ampio. Non esistono più le certezze basate sul “Lo hanno detto tv e giornali” o “L’ho trovato su Internet” e questo è assodato da tempo, ma è ovviamente più semplice credere subito a ciò che si riceve, soprattutto quando si è allineati a idee e pregiudizi coltivati e radicati nel tempo. Nathaniel Gleicher, responsabile delle politiche di sicurezza di Meta (la società che controlla Facebook, Instagram e WhatsApp), ad esempio ha annunciato l’attivazione di un servizio di moderazione e verifica dei contenuti pubblicati in tempo reale, con l’obiettivo di eliminare le pubblicazioni ingannevoli e fuorvianti sul conflitto in Ucraina. Compito non semplice, che può portare anche a errori di valutazione, come è accaduto su Twitter, e ovviamente più sono le notizie e le fonti da controllare, più è difficile verificarle attraverso algoritmi e controlli effettuati da persone in carne ed ossa, con il rischio di eliminare contenuti o account attendibili.
L’impresa si fa ancora più ardua quando una notizia non veritiera viene amplificata dai social dopo essere stata diffusa da testate giornalistiche, come dimostra l’articolo pubblicato il 26 febbraio – e poi rimosso – dall’agenzia russa Ria Novosti relativo all’avvenuta annessione dell’Ucraina alla Russia (ne rimane traccia qui: https://web.archive.org/web/20220226224717/https://ria.ru/20220226/rossiya-1775162336.html).
E’ anche vero che l’informazione può essere inattendibile per errore e anche le “nostre” testate non sono esenti da scivoloni imbarazzanti: ce ne hanno dato prova varie fonti, tra cui il TG2, che ha trasmesso le immagini di una squadra di aerei militari durante una parata militare del 2020, dichiarando che si trattava di caccia che incombevano minacciosamente sulla capitale Ucraina, oppure animazioni tratte da un videogioco (War of Thunder) descritte come immagini di un bombardamento vero e proprio:

Il sensazionalismo e l’obiettivo di arrivare “primi su una notizia” possono portare a una disinformazione pericolosa quanto quella generata dalle fake news, se non c’è accuratezza nell’informazione, ne’ controllo delle fonti. Non esprimo giudizi sulle immagini di giornalisti inviati in Ucraina che indossano elmetti e giubbotti antiproiettile mentre conducono servizi televisivi in cui si vedono civili che si muovono più o meno con disinvoltura senza particolari precauzioni o “come se niente fosse”, poiché non conosco i “protocolli di sicurezza” che devono seguire, ma sicuramente vedere una persona che cammina tranquillamente per strada vicino ad un inviato “in assetto da guerra” davanti ad una telecamera può generare qualche dubbio nello spettatore più attento.
In ogni caso, la pagina web in cui l’EDMO (European Digital Media Observatory) si focalizza proprio sulla disinformazione relativa al conflitto in Ucraina (https://edmo.eu/2022/02/24/fact-checked-disinformation-on-the-war-in-ukraine-detected-in-the-eu-2022/) è in continuo aggiornamento, per fortuna (perché offre possibilità di verifica) e purtroppo (perché persistono necessità di verifica).
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Tag: disinformazione, facebook, fact-checking, fake news, instagram, social network, twitter, Ucraina, whatsapp, youtube

10 milioni di euro per Apple e altrettanti per Google “per uso dei dati degli utenti a fini commerciali”: due multine, per un totale di 20 milioni, decise in seguito a due istruttorie parallele che hanno portato l’Antitrust – Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – a colpire i due gruppi con la massima sanzione possibile dopo aver accertato, per ognuno, due violazioni del Codice del Consumo: una per “carenze informative” e un’altra per “pratiche aggressive legate all’acquisizione e all’utilizzo dei dati dei consumatori a fini commerciali”. Multine, dicevo, e più avanti vi spiegherò perché.
Le carenze informative riguardano l’uso dei dati personali degli utenti:
- è noto che per usufruire dei servizi offerti da Google è necessario sottoscrivere un account (e questo avviene ad esempio per tutti coloro che attivano uno smartphone Android): sia in fase di creazione dell’account, che nell’utilizzo degli stessi servizi, l’azienda non trasmette all’utente informazioni importanti per consentirgli di essere consapevole del fatto che i suoi dati personali vengano raccolti e utilizzati con finalità commerciali;
- analogamente anche Apple, tanto in occasione della creazione dell’ID Apple, quanto mentre l’utente accede a servizi come App Store, iTunes Store e Apple Books, non informa l’utente in modo chiaro e immediato della raccolta di dati e relativo utilizzo con finalità commerciali, premurandosi però di evidenziare che le informazioni ottenute servono a “migliorare l’esperienza del consumatore e la fruizione dei servizi”.
La pratica “aggressiva” viene applicata da Google fin dalla creazione dell’account, per il quale l’azienda prevede per default (cioè in modalità predefinita) che l’utente acconsenta al trasferimento e/o all’utilizzo dei propri dati per fini commerciali. Questa accettazione iniziale permette a Google di acquisire e utilizzare i dati senza la richiesta di conferme successive. Apple invece applica la pratica aggressiva nell’ambito delle attività promozionali, in cui è prevista l’acquisizione del consenso all’uso dei dati degli utenti a fini commerciali senza dare all’utente consumatore la possibilità di scegliere preventivamente se e in che condividere i propri dati. In entrambe le situazioni l’utente cede informazioni personali senza averne la necessaria consapevolezza.
Inutile dire che sia Apple che Google, non essendo disposte ad accettare queste sanzioni, hanno dichiarato di voler presentare ricorso, ritenendosi nel giusto. Ma pensando a quanto fatturano queste due aziende, quanto possono rimanere anche solamente “impensierite” per aver ricevuto, ognuna, una sanzione di 10 milioni di euro? L’importo rappresenta una cifra minima, se rapportata al loro fatturato. Potrebbe essere tranquillamente messa a bilancio come voce relativa alle spese da sostenere per l’ampliamento dei propri database.
Utile però concludere – almeno, lo penso io – che l’accertata acquisizione di dati senza la necessaria consapevolezza dimostra quanto queste due aziende (e non solo loro, basti pensare ai social network) siano in grado di schedare e tracciare gli utenti in modo molto capillare ed efficace. Più di qualunque soluzione complottisticamente ritenuta pericolosa perché presuntamente destinata a tracciare la cittadinanza. Capire a che scopo, poi, è sempre difficile.
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Tag: agcm, antitrust, apple, concorrenza, consapevolezza, garante, google, mercato, multa, sanzione, social network

Clubhouse ha qualche problema di privacy. Nel nuovo audio social network, su cui già esistevano perplessità in materia di riservatezza, a un utente è stato infatti possibile condividere gli audio di una “stanza” e ritrasmetterli esternamente in streaming tramite un sito web. Il leak è stato confermato dalla Alpha Exploration (l’azienda che ha realizzato la piattaforma), ed è stato reso noto solo pochi giorni dopo la scoperta, da parte dello Stanford Internet Observatory (SIO), di una vera e propria falla nella sicurezza del sistema, foriera di intrusioni non autorizzate e trasmissioni di dati.
Secondo quanto rilevato, la piattaforma si basa su tecnologie sviluppate della società cinese Agora, che secondo i ricercatori del SIO potrebbe accedere agli audio degli utenti e fornirne i contenuti al governo cinese. A quanto pare, però, esiste una vulnerabilità che è stata sfruttata, appunto, da un utente che ha scoperto come condividere le conversazioni, rendendole accessibili anche a utenti non iscritti, semplicemente sfruttando un sito esterno, chiamato OpenClubhouse.
Secondo quanto riferito da Bloomberg, Clubhouse ci ha messo una pezza bannando l’utente e dichiarando di aver apportato opportune contromisure, azione che presso il SIO non viene ritenuta credibile. Un problema non da poco e indubbiamente da risolvere in modo concreto, considerando la crescita esponenziale registrata in queste ultime settimane, in cui il social ha raggiunto quota 8 milioni di download, grazie anche all’ingresso di numerosi personaggi come Elon Musk, Kanye West e Mark Zuckerberg, che hanno indubbiamente contribuito ad accrescerne la popolarità.
Ma senza un deciso cambio di rotta sul fronte della sicurezza, tanta popolarità dopo l’entusiasmo per l’app del momento potrebbe tradursi in un problema di cattiva reputazione, per risolvere il quale una pezza non può essere sufficiente.
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Tag: Agora, Alpha Exploration, Bloomberg, cina, clubhouse, consapevolezza, Elon Musk, Kanye West, mark zuckerberg, OpenClubHouse, privacy, sicurezza, social network

Espulso a gennaio dalla piattaforma AWS (Amazon Web Services) in seguito all’accusa di essere uno dei principali canali di comunicazione utilizzati nell’organizzazione dell’attacco a Capitol Hill, ecco di nuovo online il social network Parler, almeno come sito web: la app, infatti, non è ancora stata riammessa dall’App Store di Apple , né dal Play Store Google. L’inserimento nella lista nera delle big tech ha costretto l’azienda al trasloco – dai server Amazon a quelli di SkySilk – ma la nuova vita del social si annuncia anche con un logo completamente diverso e con una nuova guida, quella di Mark Meckler, che ha assunto la carica di CEO.
Un articolo del New York Times riferisce che il ritorno online di Parler è stato possibile grazie al supporto di un’azienda russa e di un partner di Seattle, già indicato come sostenitore di un sito neonazista. Piuttosto simile a Twitter, non ha però la stessa fluidità, anzi: dal momento che già quando si trovava su AWS si era rivelato alquanto lento, c’è da capire come sarà con il nuovo provider, un’azienda con dimensioni e risorse inferiori a quelle assicurate da Amazon.
Ferma restando la validità del principio di libertà di espressione, vedremo se il nuovo corso di Parler sarà veramente nuovo.
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Tag: amazon, apple, AWS, Capitol Hill, free speech, google, Libertà di espressione, Marck Meckler, Parler, social network, twitter

TikTok informa sull’accordo con il Garante della Privacy: dal 9 febbraio gli utenti italiani saranno chiamati ad aggiornare le informazioni personali del proprio profilo, confermando la propria data di nascita. Saranno sospesi gli account che dichiareranno un’età inferiore ai 13 anni:
TikTok è un’app riservata a persone di età pari o superiore a 13 anni e abbiamo già una serie di misure in atto per rilevare e rimuovere utenti di età inferiore ai 13 anni. Dal 9 febbraio, attraverso un aggiornamento della nostra app, faremo passare nuovamente ogni utente in Italia attraverso il nostro processo di verifica dell’età. Solo gli utenti di età pari o superiore a 13 anni potranno continuare a utilizzare l’app dopo aver eseguito questo processo. Gli utenti che hanno più di 13 anni ma che, per errore, potrebbero immettere accidentalmente un’età sbagliata, potranno presentare ricorso mentre il loro account rimane sospeso.
L’aggiornamento – non apportato ai requisiti di iscrizione, già definiti in tal senso, ma alla app – arriva in seguito ad una tragedia collegata all’utilizzo di TikTok che ha riportato d’attualità il tema dell’utilizzo di Internet e social network da parte dei minori, e della necessità di controlli adeguati sugli utenti che vi si iscrivono.
Basterà? Le dinamiche di controllo descritte da TikTok non sono realmente nulla di eccezionale: certo, prima non esistevano, ma non essendo nemmeno impossibili da aggirare, di fatto sono un “bastoncino tra le ruote” che rende ancor più intenzionale l’eventuale mancanza di rispetto delle regole sull’età minima degli iscritti. E’ come usare un lucchettino per chiudere un armadietto: forzarlo può essere un gioco da ragazzi, ma richiede volontarietà, perché rende impossibile un accesso inconsapevole e questo offre al social network la possibilità di dimostrare di aver adottato una soluzione per prevenirne l’utilizzo indebito.
A questa soluzione si potrebbe aggiungere quanto accennato in una nota dal Garante:
Per identificare con ragionevole certezza gli utenti sotto i 13 anni successivamente a questa prima verifica, la società si è impegnata a valutare ulteriormente l’uso di intelligenza artificiale.
La risposta a quel “basterà?” rimane “no”, poiché anche in questo contesto si parla di tecniche aggirabili e il motivo è molto semplice: non è raro che i minori utilizzino account aperti da figure più adulte in famiglia, come genitori o sorelle/fratelli maggiori. Per questo motivo, la campagna di sensibilizzazione che TikTok ha promesso di aprire a beneficio di genitori e figli è necessaria soprattutto per genitori e tutori: è compito loro – nostro – applicare i principi di responsabilità e consapevolezza su questi aspetti, delicati e rilevanti allo stesso tempo. Come dicevo in un precedente post su questo argomento: gli unici a fare davvero la differenza siamo noi.
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Tag: consapevolezza, controlli, età, minori, privacy, sicurezza, social network, tiktok

Io non so se Clubhouse sia l’evoluzione dei social network. Sicuramente il fatto che la comunicazione tra utenti avvenga solo via audio sovverte il paradigma classico delle piattaforme basate sulla condivisione di testi, link e immagini, che in questo periodo sono al centro dell’attenzione per questioni di moderazione o censura di contenuti se non di utenti. Disponibile (al momento) solo dall’App Store di Apple dalla scorsa primavera, ha cominciato ad “allargarsi” in questo inizio d’anno e la scorsa settimana nelle sue “stanze” erano presenti due milioni di utenti.
Riservato ai maggiorenni, prevede una registrazione da effettuare comunicando il proprio numero telefonico, ma l’account non viene attivato finché non si accetta l’invito di un utente già presente (che può inviarlo a due contatti) oppure su concessione della piattaforma. Una volta utenti si può accedere alle stanze o crearne di nuove, si tratta in pratica di chiamate di gruppo tematiche. Ci sono stanze open (aperte e tutti), social (accessibili da follower) o closed (su invito da parte di chi le ha aperte).
Niente di asincrono, niente podcast, tutto avviene solo in diretta e anche questo aspetto – che richiede disponibilità di tempo – lo distingue dagli altri social più visuali che permettono di consultare di nuovo, di riascoltare, leggere nuovi commenti, rispondere, eventualmente anche modificare quanto già scritto. Visto così, sembra un Discord in grado di farcela. L’impressione che ne traggo è quella di un palco con una platea dinamica: ok, la discussione può essere partecipata da tutti, ma un personaggio carismatico è sempre più attivo e ascoltato degli altri e tende ad essere protagonista nella stanza in cui si trova. Agli utenti, però, non è possibile conservare nulla perché non è possibile scaricare o condividere le conversazioni. Ovviamente non si può escludere che qualcuno possa registrarle con soluzioni esterne alla app.
A parte l’ultima osservazione personale, con questi presupposti la piattaforma appare privacy-friendly. Ma leggendone i terms of service (cosa che andrebbe sempre fatta) è possibile approfondire l’argomento scoprendo che:
Caricando qualsiasi Contenuto concedete e concederete ad Alpha Exploration Co. e alle sue società affiliate una licenza non esclusiva, mondiale, gratuita, interamente pagata, trasferibile, sublicenziabile, perpetua e irrevocabile per copiare, visualizzare, caricare, eseguire, distribuire, memorizzare, modificare e utilizzare in altro modo il vostro Contenuto in relazione al funzionamento del Servizio o alla promozione, pubblicità o marketing dello stesso, in qualsiasi forma, mezzo o tecnologia attualmente conosciuta o sviluppata successivamente.
Naturalmente la privacy policy va letta con attenzione perché, dopo aver chiarito tutte le varie tipologie di dati personali raccolti durante l’utilizzo da parte dell’utente, specifica il possibile utilizzo da parte dell’azienda (si noti l’assoluta mancanza di riferimenti al GDPR):
Possiamo aggregare i Dati Personali e utilizzare le informazioni aggregate per analizzare l’efficacia del nostro Servizio, per migliorare e aggiungere funzioni al nostro Servizio, e per altri scopi simili. Inoltre, di tanto in tanto, possiamo analizzare il comportamento generale e le caratteristiche degli utenti del nostro Servizio e condividere informazioni aggregate come le statistiche generali degli utenti con potenziali partner commerciali. Possiamo raccogliere informazioni aggregate attraverso il Servizio, attraverso i cookie e attraverso altri mezzi descritti nella presente Informativa sulla privacy.
E’ sicuramente verificabile che sui dispositivi degli utenti non venga memorizzato nulla, ma è altrettanto certo (in quanto è dichiarato) che Alpha Exploration – l’azienda che ha realizzato Clubhouse – raccolga tutte le informazioni possibili legate all’utilizzo della app (dati dell’utente, informazioni sullo smartphone, sulle interazioni con altre app, sulla geolocalizzazione dell’utente, eccetera), dati personali che – come si legge sopra – possono essere elaborati non solo ai fini del miglioramento del servizio, ma anche a scopi commerciali.
Non sembra quindi lontano dalla realtà la supposizione che gli audio possano essere ascoltati attentamente da sistemi di intelligenza artificiale in grado di analizzarne i contenuti con l’obiettivo di migliorare un altro servizio, ossia la profilazione dell’utente con finalità pubblicitarie o di indirizzamento delle opinioni. Sistemi molto simili a quelli che sono alle spalle dei numerosi assistenti vocali che ormai ben conosciamo.
In questo momento, però, vige una selezione all’ingresso determinata dal meccanismo su invito e, soprattutto, dalla disponibilità limitata solo agli utenti Apple. L’apertura verso Android cambierà tutto.
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Tag: advertising, Alpha Exploration, apple, clubhouse, consapevolezza, Discord, facebook, ios, iphone, Parler, privacy, profilazione, pubblicità, social network, twitter

I leoni da tastiera ancora convinti che sui social network sia possibile offendere, insultare e minacciare – con nome e cognome, o nascondendosi dietro un presunto anonimato – si trovano ora a dover fare i conti con un ennesimo promemoria: una pesante sentenza per diffamazione che colpisce chi ha invitato (e incitato) gli utenti ad esprimere dissenso nei confronti di altre persone, in una vicenda che ha visto protagonisti tre personaggi dello spettacolo – il Trio Medusa composto da Gabriele Corsi, Giorgio Daviddi e Furio Corsetti – vincere una causa con un provvedimento di importanza storica perché costituisce un precedente di rilievo sul tema dell’odio in Rete.
Il fatto è ben spiegato dagli stessi interessati, con il supporto dell’avvocato Francesco Donzelli intervenuto nella loro trasmissione radiofonica (Chiamate Roma Triuno Triuno – Radio Deejay), che spiegano quanto avvenuto nel 2013: in una puntata del loro programma era stato citato (ironicamente, ma senza particolari commenti) il tema del signoraggio bancario. In seguito all’episodio, il titolare di blog che a quell’argomento ha dedicato molti post, aveva scritto:
Alcuni lettori ci hanno segnalato che il Trio Medusa in una rubrica trasmessa su Radio Deejay ha screditato il tema del signoraggio bancario […] inoltre hanno denigrato coloro che ne parlano: dipinti, in pratica, come poveri pirla”. “Invitiamo tutti i nostri lettori ad esprimere – in modo civile – dissenso per la trasmissione in questione allo staff del Trio Medusa, direttamente sulla loro pagina Facebook chiedendo al Trio Medusa di ‘rettificare’ in merito ad una questione sicuramente molto seria, sulla quale c’è ben poco da ridere.
L’effetto di quell’invito ad esprimere dissenso – e non l’invito stesso, espresso con termini moderati – ricorda da vicino l’incitazione “Al mio segnale scatenate l’inferno” pronunciata dal generale Massimo Decimo Meridio (Il Gladiatore): da quel momento gli utenti si sono mobilitati in massa scrivendo volgarità, offese, e minacce nei confronti dei conduttori (e delle loro famiglie) sulle loro pagine social. Una mole di fango che li ha spinti ad agire ricorrendo alle vie legali, non solo per tutelarsi, ma per incoraggiare tutte le vittime dell’odio in rete a non avere paura di denunciare. L’esito dell’azione legale non poteva essere più significativo: la decisione del giudice non si limita a riconoscere la responsabilità di chi offende direttamente sui social, ma la attribuisce al mandante, cioè a chi ha invitato gli utenti – anche in modo indiretto e apparentemente civile – ad esporsi, letteralmente, su suo mandato. In questo caso specifico,
Tutto questo riguarda anche chi – come accennavo inizialmente – pensa di potersi nascondere dietro un presunto anonimato: scrivere su social network post o commenti con uno pseudonimo non mette nessuno al riparo dalle proprie responsabilità. Non parliamo poi di chi – anziché con un nickname di fantasia – scrive sotto mentite spoglie, ossia con nomi di altre persone realmente esistenti e ignare dei fatti, configurando – oltre alla diffamazione – il reato di furto di identità. Le forze dell’ordine sono in grado di rintracciare i dati per ogni pubblicazione, anche dopo eventuali cancellazioni.
Congratulazioni al Trio e all’avvocato Francesco Donzelli, che in trasmissione ha ringraziato pubblicamente il collega Daniele Biancifiori per il supporto.
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Tag: bullismo, calunnie, diffamazione, fango, Francesco Donzelli, Furio Corsetti, Gabriele Corsi, Giorgio Daviddi, hater, haters, insulti, minacce, odio, Radio Deejay, rete, sentenza, shitstorm, social network, Trio Medusa

La notizia drammatica della morte di una bambina per una sfida su TikTok, una delle tante challenge diffuse tramite social network, riporta l’attenzione pubblica sull’utilizzo di smartphone e tablet connessi a Internet da parte di minori e si assiste a richieste di introdurre per legge un’età minima per poterne usufruire, ma è bene premettere un dato di fatto: esiste già. E già da questo capiamo che non è una soluzione sufficiente.
L’età minima è stata stabilita per i servizi della “società dell’informazione” (connessione Internet, social network, servizi di messaggistica, eccetera): il Regolamento Europeo sulla Protezione dei Dati Personali (GDPR) indica 16 anni, lasciando però facoltà agli Stati UE di abbassare il vincolo di età (comunque mai al di sotto dei 13 anni). Avvalendosi di questa facoltà, l’Italia ha fissato l’età minima a 14 anni. In ogni caso, dai 13 anni l’iscrizione non è vietata, ma deve essere subordinata al consenso di genitori o tutori, chiamati ad esercitare una necessaria supervisione, oltre che a rispondere di eventuali condotte non adeguate. C’è anche un età minima per avere un’utenza cellulare, che è 8 anni, ma anche per questo serve il consenso di genitori e tutori che se ne assumono la responsabilità, dal momento che l’art.97 del Codice Penale stabilisce che “non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni”.
Quindi, ricapitolando: a 8 anni è possibile disporre di un telefono cellulare, utilizzabile per le telefonate. Dai 13 anni, con consenso dei genitori, è possibile accedere a servizi Internet, a cui è possibile iscriversi liberamente dal compimento dei 14 anni. Queste sono le regole che vengono evidentemente ignorate, come vengono aggirati i termini di utilizzo definiti dalle aziende che gestiscono i servizi, quando un bambino di 12 anni (o meno) è dotato di smartphone di ultima generazione con connessione Internet e iscrizione ai social network, effettuata dichiarando un’età non veritiera. E’ sicuramente possibile introdurre ulteriori “paletti” a livello tecnologico per rafforzare i meccanismi di controllo dell’età, onde evitare che un social network pensato per adolescenti o adulti sia accessibile ai bambini ed è auspicabile che le aziende del settore si muovano in questa direzione, ma anche questa non sarà mai una soluzione definitiva, perché la tecnologia non può risolvere tutto: applicazioni di controllo come Family Link possono essere di ulteriore aiuto, ma gli unici a fare davvero la differenza siamo noi.
Ciò che va considerato e messo in primissimo piano è la necessità di essere il più possibile a fianco dei minori per non far mai mancare quella vicinanza e quel supporto che permettono, con il tempo, di maturare la consapevolezza delle proprie azioni e dei rischi a cui possono andare incontro isolandosi in una sfera virtuale, in cui sono soli anche nell’illusione di mantenere un contatto (superficiale) con tantissime persone. Affidare uno smartphone o un tablet a un figlio deve essere una scelta consapevole di tutto ciò che questa responsabilità comporta e non può essere limitata alla spinta del confronto sociale trasmesso dal “ce l’hanno anche gli altri”, men che meno dalla presunta necessità di dargli uno strumento di intrattenimento per “tenerlo tranquillo”. Sicuramente è più semplice dirlo che concretizzarlo, ma non bisogna mai demordere.
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Tag: cellulari, challenge, consapevolezza, età, Family link, figli, genitori, Internet, minori, privacy, smartphone, social network, tiktok, tutori

Parler è ancora in cerca di hosting, ma prima che finisse offline ad opera di Amazon, qualcuno ha fatto in tempo a raccogliere i video girati il 6 gennaio in occasione dell’attacco a Capitol Hill e pubblicati sulla piattaforma. Con questo materiale, un programmatore ha composto un archivio di circa 80 Terabyte e lo ha messo a disposizione delle forze dell’ordine. ProPublica ne ha pubblicati 500 in ordine cronologico, per tentare una ricostruzione, seppur parziale, di ciò che è accaduto quel giorno.
Nonostante il materiale sia molto, la videocronaca non è “Tutto l’attacco minuto per minuto”, ma è in grado di raccontare – dal punto di vista di chi era presente – un evento senza precedenti, che è e sarà ancora per molto tempo oggetto di analisi. Non è affatto escluso – anzi, è verosimile – che questo materiale finisca in una produzione cinematografica (film, docufilm, documentario…) proprio perché può offrire un enorme contributo a delineare gli eventi di quel giorno.
I video non sono certo l’ultima parola sull’argomento, ma nel loro complesso ci aiutano a rispondere a due domande chiave sull’assalto: chi erano e quali erano le loro motivazioni? Tra un decennio, gli storici continueranno a scrivere tesi di dottorato su queste domande, così come hanno fatto sulla folla che ha preso d’assalto la Bastiglia il 14 luglio 1789 o sulla folla nel putsch della birreria di Adolf Hitler. Ma questi video di Parler ci comprendere in modo più approfondito e ci fanno vedere oltre quel numero relativamente piccolo di persone che sono state accusate di reati.
Sullo sfondo c’è comunque da considerare che eventi simili, caratterizzati dalla partecipazione di un numero relativamente elevato di persone, saranno sempre più facilmente documentabili e analizzabili per via della prassi di girare filmati con lo smartphone, per la condivisione sui social network. E questo indipendentemente dall’eventualità che la piattaforma venga sospesa (come avvenuto per Parler): con sempre maggiore frequenza è possibile constatare che la memoria social sopravvive alla pubblicazione stessa e va oltre al testo, all’immagine o al filmato che viene tempestivamente cancellato. Ed è sempre più difficile farla franca per chi cerca di eliminare le prove di ciò che ha pubblicato e di cui poi, per vari motivi, si è pentito: l’esercito dello screenshot è sempre in agguato e pronto a colpire.
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Tag: amazon, attacco, Capitol Hill, congresso, diritti, Libertà di espressione, Parler, ProPublica, social network, trump, usa