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Perché sfruttare i social per boicottare chi lavora?

Chi esorta a boicottare un’azienda perché è stata visitata da un politico (indipendentemente dal suo “colore”) non solo non sa davvero come gira il mondo, ma ne ignora proprio le basi.

Se siete contro un personaggio politico, organizzate una protesta contro di lui. Dal vivo, di persona, presentatevi di persona e non nascondetevi dietro uno smartphone: è fuori da ogni realtà chi esorta gli italiani a boicottare la Rummo S.p.A. solo perché Matteo Salvini le ha fatto visita nel suo ruolo istituzionale di vicepresidente del consiglio e ministro delle infrastrutture e dei trasporti.

Non sottovalutate mai la potenza e le possibili conseguenze di un’iniziativa social che punta al boicottaggio di un’azienda. In questo caso si tratta di un pastificio che dà lavoro a circa 170 dipendenti e una cinquantina di collaboratori. Come ho scritto in un post precedente, (in occasione del Pandoro-gate in cui il bersaglio erano Chiara Ferragni la Balocco) è da irresponsabile esortare le persone a non acquistare Pasta Rummo: dietro ogni lavoratore c’è una famiglia, perché danneggiarla se alla base c’è un lavoro onesto? Dietro ogni azienda c’è un prodotto, e se è di qualità ed è realizzato onestamente, perché boicottarlo?

Se dal palco dei social network invitate gli italiani a non acquistare i prodotti di questa azienda (per motivi stupidi, soprattutto perché inesistenti) contribuite a creare un danno concreto a molte persone, solamente perché quell’azienda ha aperto le sue porte ad una carica dello Stato. Che, lo ribadisco, non importa quale “colore politico” rappresenti: in quel momento rappresenta un’Istituzione ed è lì per esaltare il frutto del lavoro dell’azienda.

Fate attenzione a non “polarizzare” questioni di interesse collettivo. Ragionate, ci vuole davvero poco a capirlo!

 
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Pubblicato da su 23 gennaio 2024 in news

 

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Cos’è che state disattivando, scusate?

Da alcuni giorni numerosi utenti contribuiscono ancora a diffondere su Facebook, a distanza di anni, una vecchia bufala ingannevole che, con un semplice post con una dichiarazione, permetterebbe agli utenti di mantenere la titolarità di ciò che pubblicano e/o non sottoscrivere il pagamento del canone di 4,99 euro al mese e di mantenere i diritti di utilizzo di immagini e testi pubblicati. Ancora una volta è necessario ribadirlo: sono tutte palle! Ma questa volta la bufala è tornata d’attualità perché Meta sta varando un altro servizio: la versione senza pubblicità di Facebook e Instagram. Che affiancherà la versione “gratuita”, ma con costi ben più alti. E, soprattutto, senza alcun cambiamento sui diritti di utilizzo delle immagini.

I fatti: dal mese di novembre 2023, Meta (la società che controlla piattaforme come Facebook, Instagram e WhatsApp) ha lanciato in Europa la versione “pay” dei suoi social network, fruibile senza inserzioni pubblicitarie. Questo significa che la versione “gratuita” di Facebook e Instagram continuerà a esistere e, se un utente non sottoscriverà alcun tipo di abbonamento, potrà proseguire a utilizzare questi servizi “gratuitamente” e a visualizzare inserzioni pubblicitarie mirate, derivanti dalla sua navigazione e dalle sue preferenze espresse nell’utilizzo dei social network. Come adesso, dunque, anche se non è da escludere nel prossimo futuro un bombardamento pubblicitario maggiore.

Quanto costerà la libertà dalla pubblicità? 9,99 euro al mese per chi utilizza Facebook o Instagram dal browser, 12,99 euro al mese per gli utenti che utilizzano i social network da app su dispositivi iOS (iPhone, iPad) o Android. Attenzione però: fino al 29 febbraio 2024, la sottoscrizione sarà valida per tutti gli account collegati al Centro gestione account dell’utente. Dal 1 marzo, ogni account aggiunto al Centro gestione account dell’utente comporterà un costo aggiuntivo, ossia un canone di 6 euro al mese da browser e di 8 euro al mese se da iOS o Android.

Queste sono le condizioni che saranno applicate a chi sottoscriverà un abbonamento, differenziando la propria esperienza social dagli utenti che rimarranno sulla piattaforma “gratuita”, pagando quindi non con un canone in denaro, ma acconsentendo ad essere profilati dalle piattaforme di advertising. Perché – è bene ricordarlo – la presunta gratuità ha comunque un prezzo, che dal punto di vista monetario viene pagato dagli inserzionisti pubblicitari, mentre dal punto di vista del patrimonio di informazioni viene pagato dagli utenti che acconsentono di essere tracciati e controllati.

Il controllo che riguarda tutti, utenti “pay” e “free”, riguarda i contenuti pubblicati. Ma a questo proposito non c’è “non autorizzo” o “sto disattivando” che tenga: all’atto dell’iscrizione a Facebook, per dirla in termini semplici, ogni utente ha sottoscritto le condizioni indicate nel regolamento, che prevedono la concessione di una licenza non esclusiva, trasferibile, sub-licenziabile, esente da royalty e mondiale per ospitare, utilizzare, distribuire, modificare, eseguire, copiare o visualizzare pubblicamente, tradurre e creare opere derivate dai tuoi contenuti”. Cosa significa? Che “se condividi una foto su Facebook, ci dai il permesso di archiviarla, copiarla e condividerla con altri”.

Quindi, nei vostri post, potete scrivere ciò che volete. Ma Facebook, come da accordi sottoscritti all’atto dell’iscrizione, potrà ancora utilizzare ciò che pubblicate nel modo che ritiene più opportuno. In barba a tutti i “non autorizzo” e “anch’io sto disattivando!”, ma c’è anche la variante “Il mio è davvero diventato blu”. Ma a proposito: cosa state disattivando, esattamente? E dove vedete Channel 4 News? E se state pubblicando la variante, cos’è che vi è davvero diventato blu?

 
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Pubblicato da su 12 novembre 2023 in news

 

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Provaci ancora, Trump!

Dite la verità: non vedevate l’ora della presentazione di un nuovo social, esattamente come quando si aspetta con trepidazione di essere inseriti in un nuovo gruppo WhatsApp. Ma non sia mai detto che Donald Trump non è uomo di parola, lo aveva promesso e ora intende dimostrare al mondo di aver concretizzato il suo proposito, comunicando la realizzazione della sua nuova piattaforma, chiamata TRUTH Social. L’obiettivo? Che domande… “Opporsi alla tirannia delle società Big Tech” perché “viviamo in un mondo in cui i talebani hanno un’enorme presenza su Twitter” – da cui Trump è stato bandito, dopo l’assalto al congresso dello scorso gennaio, ndb – “ma il vostro presidente americano preferito è stato messo a tacere. Questo è inaccettabile”.

La roadmap del nuovo progetto è definita: sull’App store, la app è già disponibile alla prenotazione e dal prossimo novembre la piattaforma accoglierà i primi utenti su invito (a cui si può ambire iscrivendosi su http://www.truthsocial.com), per consentire a Trump di riaprire in chiave digitale il dialogo con i propri sostenitori interrotto in seguito alla sospensione forzata a cui l’ex presidente americano è stato costretto a causa del bando ricevuto dai principali social network e dopo un primo tentativo dai risultati non esaltanti rappresentato da quella “scrivania a forma di blog” chiusa dopo poche settimane).

Il social network, però, è il primo dei tre obiettivi prefissati. Al lancio di TRUTH seguiranno altre due iniziative, più profittevoli: l’offerta di un servizio di distribuzione contenuti video on-demand chiamato TMTG+ con intrattenimento, notizie e podcast, e la realizzazione di una piattaforma cloud che punta porsi in competizione con AWS-Amazon Web Services e Google Cloud.

Alle spalle di questi obiettivi c’è una verosimile volontà di The Donald di ripresentarsi alle prossime elezioni presidenziali con un adeguato supporto sia finanziario che mediatico, ruolo che in questo progetto sarà sostenuto dalla nuova società Trump Media and Technology Group, che nascerà dalla fusione tra l’attuale società di Trump e DWA – Digital World Acquisition Group, per la quale è già prevista la quotazione in borsa.

Informazione accessoria: l’attuale numero uno di DWA è Patrick F. Orlando, CEO della società Yunhong International, costituita nelle Isole Cayman ma con sede a Wuhan, in Cina (dati di Bloomberg).

 
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Pubblicato da su 21 ottobre 2021 in news

 

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La tossicità dei social, spiegata (da Facebook)

Qualche settimana fa il Wall Street Journal ha pubblicato un’inchiesta per illustrare lo studio che Facebook ha commissionato ad un gruppo di propri ricercatori riguardo all’impatto di Instagram sui giovani utenti, che ha portato alla luce effetti particolarmente dannosi soprattutto per le ragazze nell’età dell’adolescenza. L’inchiesta, però, fa parte di un corposo dossier chiamato Facebook Files, focalizzato su documenti aziendali riservati che si concentrano su varie tematiche, che riguardano – oltre l’effetto di Instagram sull’utenza più giovane – le modalità di trattamento di opinioni controverse, gli utilizzi fraudolenti e l’approccio al tema “Covid 19 + Vaccini”.

Facebook Inc. è pienamente consapevole che le sue piattaforme sono piene di difetti che possono causano danni, spesso in modi che solo l’azienda comprende pienamente. Questa è la conclusione centrale di una serie del Wall Street Journal, basata sull’analisi di documenti interni di Facebook, inclusi rapporti di ricerca, discussioni online dei dipendenti e bozze delle presentazioni al senior management.

In più occasioni, i documenti mostrano che i ricercatori di Facebook hanno identificato gli effetti negativi della piattaforma. Nonostante le udienze del Congresso, le sue stesse promesse e numerose dichiarazioni attraverso i media, l’azienda non ha risolto nulla. I documenti offrono forse il quadro più chiaro finora di quanto i problemi di Facebook siano ampiamente noti all’interno della società, persino allo stesso amministratore delegato.

(dall’introduzione dell’inchiesta “The Facebook Files”)

Fra le fonti del Journal – lo si è scoperto in questi giorni – c’è Frances Haugen, ingegnere informatico che ha lavorato per l’azienda di Mark Zuckerberg per un paio d’anni, per poi uscirne dopo aver constatato che la sicurezza e la serenità degli utenti sono sempre state messe in secondo piano, per favorire il profitto:

Sono entrata in Facebook nel 2019 perché qualcuno a me vicino è stato radicalizzato online. Mi sono sentita in dovere di assumere un ruolo attivo nella creazione di un Facebook migliore e meno tossico. Durante il mio periodo in Facebook, prima lavorando come lead product manager per la Civic Misinformation e poi per il Counter-Espionage, ho avuto la possibilità di osservare come Facebook abbia ripetutamente affrontato conflitti tra i propri profitti e la nostra sicurezza. Facebook ha sempre risolto questi conflitti in favore dei propri profitti. Il risultato è stato un sistema che amplifica la divisione, l’estremismo e la polarizzazione e mina le società di tutto il mondo. In alcuni casi, questo pericoloso discorso online ha portato alla violenza reale che danneggia e addirittura uccide le persone. In altri casi, la loro macchina di ottimizzazione del profitto sta generando autolesionismo e odio verso se stessi – specialmente per gruppi vulnerabili, come le ragazze adolescenti. Questi problemi sono stati confermati ripetutamente dalla ricerca interna di Facebook.

Lo studio condotto su Instagram negli ultimi tre anni ha effettivamente evidenziato aspetti di rilevanza socio-psicologica come l’ansia e la depressione di cui soffrono molte ragazze, a causa del confronto con l’aspetto fisico ostentato da altre utenti. Per avere un’idea di quanto è emerso dalla ricerca si può partire da un dato alquanto emblematico, riportato da una slide pubblicata nel marzo 2020 nella bacheca interna di Facebook: “Il trentadue per cento delle ragazze adolescenti hanno detto che, quando si sentivano male per il loro corpo, Instagram le faceva sentire peggio”. I risultati della ricerca sarebbero ben noti internamente a Facebook (che ha acquisito Instagram nel 2012 per rimettere le mani sul bacino d’utenza che stava perdendo), per la quale i giovani utenti rappresentano una base fondamentale per il suo fatturato, che ammonta in un anno a oltre 100 miliardi di dollari e proviene dal business delle inserzioni pubblicitarie. Gli utenti fino ai 22 anni di età rappresentano oltre il 40% del totale degli iscritti. Le problematiche più serie rilevate nella ricerca – osservano gli autori nelle proprie conclusioni – riguardano soprattutto Instagram, e non altri social media come TikTok o Snapchat ad esempio, perché si focalizza sullo stile di vita e sul corpo degli utenti, per cui spinge al confronto sociale, cioè a quanto una persona valuta il proprio “valore” e lo rapporta agli altri sul piano del successo, della ricchezza economica e dell’attrattiva.

E’ necessario riportare che, sempre secondo lo stesso studio, la maggior parte degli utenti in età adolescenziale utilizza Instagram come strumento di comunicazione tra amici o per l’intrattenimento personale e, in tal modo, gli effetti dannosi non vengono percepiti, o comunque vengono gestiti ed evitati. Tuttavia i numeri delle “vittime” di questo fenomeno del confronto sociale, da una ricerca condotta tra gli utenti di Stati Uniti e Gran Bretagna, emerge che oltre su Instagram oltre il 40% degli utenti che hanno dichiarato di sentirsi “poco attraenti” ha confidato che tale sensazione è scaturita dall’utilizzo dell’app, da cui però non si staccano per un senso di dipendenza, che si è accentuato durante i periodi di isolamento nell’emergenza sanitaria.

L’obiettivo aziendale è favorire la proliferazione di post, commenti e reazioni, indipendentemente dall’argomento. E con questo presupposto il sistema è stato messo in grado di apprendere quali temi suscitano reazioni contrariate da parte di un utente (sulle quali è più propenso ad esprimersi, scatenando ulteriori reazioni), rendendo ancor più facile il gioco a vari influencer. La dirigenza di Facebook, dovendo scegliere, anziché agire e trovare una soluzione in grado di smorzare i toni per placare gli animi ha preferito lasciare che gli utenti potessero (virtualmente) azzuffarsi tra loro a favore della “crescita delle conversazioni”.

Sul fronte legato a Covid 19 e relativi vaccini, invece, Facebook si è proposta quale strumento di supporto per aiutare gli utenti a trovare il più vicino centro vaccinale e fornire ulteriori informazioni con il Covid Information Center per Instagram e una serie di chatbot attivati su WhatsApp, come dichiarato nel comunicato pubblicato lo scorso marzo. Nell’algoritmo di presentazione di contenuti agli utenti sono state inserite istruzioni per limitare al massimo i post con invito a non sottoporsi a vaccinazione, regola che però è andata a scontrarsi con tute le indicazioni che nell’algoritmo devono favorire la diffusione e la proliferazione di commenti da parte degli utenti. Risultato: ogni post “pro-vax” otteneva (e ottiene) per reazione una valanga di commenti e post contrari alla vaccinazione, reazione che in realtà è stata prevista e ben nota ai vertici dell’azienda. Non solo: tutto questo ha vanificato l’efficacia dei filtri posti a contrasto della diffusione di bufale e fake news. Contromisure? Nessuna.

Ora, un po’ di buon senso: come ho osservato tempo fa, nell’utilizzo dei social network da parte degli utenti più giovani è assolutamente necessario non essere abbandonati dagli adulti, che anzi devono mantenere quella vicinanza e quel supporto che, con il tempo, permettono di cogliere le opportunità creative e di intrattenimento, ma soprattutto contribuiscono alla crescita e la maturazione della consapevolezza delle proprie azioni, così come dei rischi a cui i ragazzi vanno incontro isolandosi in quella sfera virtuale in cui sono inevitabilmente soli, anche quando si illudono di mantenersi in contatto (superficiale) con tantissime persone. Affidare uno smartphone o un tablet a un figlio deve essere una scelta consapevole di tutto ciò che questa responsabilità comporta e non può essere limitata alla spinta del confronto sociale (concetto che ritorna, qui in altro aspetto), quel confronto trasmesso dal “ce l’hanno anche gli altri”, men che meno dalla presunta necessità di dargli uno strumento di intrattenimento per “tenerlo tranquillo”. Sicuramente è più semplice dirlo che concretizzarlo, ma non bisogna mai demordere.

 
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Pubblicato da su 7 ottobre 2021 in news

 

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Trump riparte dal blog (aspettando il social)

Con colpevole ritardo mi accorgo solo ora che Donald Trump ha mantenuto la sua promessa di tornare online con una propria “piattaforma di comunicazione”. Per carità, non chiamiamolo social media perché il sito From the desk of Donald J Trump ha tutte le caratteristiche di un blog, quindi non si tratta affatto – come si legge in rete – di una sfida lanciata a Facebook, Instagram e Twitter, ma di un “piano B” per ovviare al piccolo inconveniente della cacciata di Trump dalle popolari piattaforme. Dell’annunciato “nuovo social” si riparlerà quando se ne avranno notizie.

Anche se il sito si presenta già popolato da post pubblicati in precedenza, la sua presenza online è stata resa nota solo ieri, proprio un giorno prima dell’annuncio, da parte dell’Oversight Board di Facebook (il Consiglio di Vigilanza), della decisione (rivedibile in futuro) di mantenere Donald Trump fuori da Facebook e Instagram, dopo il blocco previsto in seguito all’attacco al Campidoglio del 6 gennaio.

Sospensione che è invece già permanente per Twitter e che costituisce comunque una distorsione, dal momento che si tratta di provvedimenti inibitori stabiliti non da un’istituzione, bensì da entità private. Certo, si tratta dei proprietari di spazi aperti al pubblico. Ma proprio in quanto disponibili a chiunque altro, vietarne l’accesso in assenza di un’ordinanza o di un provvedimento istituzionale di altro tipo, rappresenta un’iniziativa discriminatoria, indipendentemente dalle legittime motivazioni che sarebbero invece l’ideale presupposto di una vera e propria ordinanza restrittiva, che potrebbe avere anche maggiore efficacia e riguardare ogni piattaforma di comunicazione online.

Tornando al nuovo progetto web di Trump, osserviamo un dettaglio non trascurabile: nel blog che si presenta come “a place to speak freely and safely” (un posto per parlare liberamente e in sicurezza), i commenti ai post sono disattivati. Ergo, può parlare liberamente e in sicurezza solo l’autore, che – essendo il padrone di casa – ovviamente può fare come meglio crede, ci mancherebbe altro. Ma non si osi pensare che gli “obiettivi social” siano stati accantonati: ai follower è permesso interagire, perché possono cliccare sui pulsantini presenti ad ogni post, per condividerlo (dove? Su Facebook e Twitter, ovviamente) o esprimere il proprio “like” cliccando sul cuoricino (che tenerezza).

 
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Pubblicato da su 5 Maggio 2021 in news

 

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Mai lasciare un pc incustodito

Il Comando Strategico dell’Esercito USA domenica ha pubblicato un tweet con questo messaggio:

 ;l;;gmlxzssaw,

Non è il nuovo nome del vaccino anti covid-19 di AstraZeneca e non ci sarebbe nulla di allarmante, se non fosse uscito da uno dei centri di comando del dipartimento americano della difesa, che controlla l’intero arsenale nucleare delle forze armate, comanda la difesa missilistica e svolge altre attività strategiche. Visto il peso dell’ente, messa da parte l’idea di un’incomprensibile violazione da parte di gruppi hacker malintenzionati, le ipotesi che si sono susseguite sono state le più disparate: violazione dell’account da parte di ignoti? Un improbabile messaggio in codice inviato a destinatari altrettanto ignoti? Il tweet poi è sparito, ma il mistero sulla sua pubblicazione è rimasto per qualche ora, finché non ne è stata chiarita la natura: si era trattato semplicemente di un messaggio senza senso, colpa di un’incauta gestione del telelavoro.

“Il gestore Twitter del comando, mentre si trovava in telelavoro, ha lasciato momentaneamente l’account Twitter del comando aperto e incustodito. Il suo giovanissimo figlio ha approfittato della situazione e ha iniziato a giocare con i tasti e purtroppo, inconsapevolmente, ha pubblicato il tweet“.

Questa è la risposta ufficiale data dal Comando a Mikael Thalen, che ne ha scritto su DailyDot, sgombrando il campo da ulteriori congetture nefaste o complottiste. Quindi non è stato il Comando Strategico dell’Esercito USA a pubblicare quel tweet, ma un innocente bambino.

L’aneddoto è utile a mettere a fuoco il tema dell’attenzione richiesta nel lavoro svolto da casa nelle sue varie declinazioni, dal telelavoro allo smart working (che non sono la stessa cosa, ma si inseriscono in un contesto di attività fuori sede che include anche dad o did). In questo caso non è accaduto assolutamente nulla di grave o irreparabile: il rischio comportato dalla leggerezza di lasciare per qualche istante – a casa propria – un computer incustodito con l’account Twitter aperto, mentre per casa si aggira un bambino curioso, è abbastanza irrisorio.

Lo scenario cambierebbe parecchio se il computer rimanesse disponibile e aperto su applicazioni con informazioni più critiche, annullabili da un delete (tasto di cancellazione) o dalla chiusura accidentale di un programma senza aver salvato nulla, o su un messaggio di posta elettronica ancora da correggere prima di essere spedito. Beninteso: probabilmente l’ambiente domestico è foriero di imprevisti meno gravi di quelli che potrebbero verificarsi in un ufficio o un laboratorio in cui un computer possa essere lasciato “aperto” con informazioni sensibili lasciate in bella mostra. Per non parlare del problema che si ripropone quando vengono lasciate incustodite le password. Rimane il fatto che, onde evitare spiacevoli inconvenienti, quando si lascia momentaneamente un computer, anche per pochi istanti, è opportuno bloccarne lo schermo:

  • Ambiente Windows: tasto Windows + L
  • Ambiente Mac: tasti CMD + CTRL + Q
  • Ambienti Linux: una possibilità passa dai tasti CTRL + ALT + L (ma esistono altre possibilità, dovreste saperlo meglio di me!)
 
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Pubblicato da su 31 marzo 2021 in news

 

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Donald Trump Social Club

Cacciato da tutti i principali social network, Donald Trump sembra pronto a tornare online. Come? Con una piattaforma tutta sua, secondo quanto riferito a #MediaBuzz (Fox News) dal suo collaboratore Jason Miller:

Penso che vedremo il presidente Trump tornare sui social media probabilmente tra due o tre mesi, con una sua piattaforma.

E questo è qualcosa che penso sarà la novità più calda nei social media, ridefinirà completamente il gioco, e tutti aspetteranno e guarderanno per vedere esattamente cosa fa il presidente Trump.

Sarebbero numerose, secondo Miller, le aziende del settore che avrebbero avvicinato Trump in questo periodo. L’obiettivo potrebbe essere quello di attirare l’attenzione dei repubblicani e preparare – con largo anticipo – la strada per la campagna per le elezioni del 2024.

L’annuncio di Miller sembra più che altro un teaser pubblicitario, funzionale a creare una certa attesa verso questa novità “social”, che quasi sicuramente dovrà fare i conti con il rifiuto, da parti di aziende del calibro di Microsoft e Amazon, di offrire supporto tecnologico a Trump e ai suoi seguaci in seguito all’attacco a Capitol Hill, un problema già affrontato da Parler che ha dovuto migrare su altri lidi, pagando lo scotto di una presenza sul web tecnicamente poco performante.

Per confrontarsi con Mark Zuckerberg, numero uno del social più grande del mondo, a Trump converrà avere la sicurezza di presentarsi con una piattaforma solida, potente e in grado di attirare pubblico. Possibilmente qualcosa di più di un social blog, perché se anch’essa dovesse distinguersi per “scarsa navigabilità”, rischierebbe di confermarsi solo come zimbello del web.

 
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Pubblicato da su 22 marzo 2021 in news

 

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Clubhouse nel mirino di Facebook e Twitter

Quando una piattaforma tecnologica sembra funzionare, Mark Zuckerberg inizia a puntare i piedi e a volerla acquistare per inglobarla nella famiglia Facebook. Era accaduto con Instagram, si è ripetuto con WhatsApp e con Oculus. Ora – stando a quanto riferisce il New York Times – sarebbe il turno di Clubhouse, il social network “solo audio”, che sta acquistando popolarità mondiale grazie all’ingresso – registrato nei giorni scorsi – di vari nomi illustri (tra cui Elon Musk, ma anche personaggi come Drake, Tiffany Haddish e Jared Leto), che hanno contribuito a solleticare l’interesse di molti investitori. Clubhouse sarebbe però nel mirino anche di Twitter: entrambi i gruppi, infatti, avrebbero in cantiere soluzioni concorrenti (quella a cui sta lavorando Twitter si chiamerebbe Spaces).

Che l’evoluzione dei social network vada in questa direzione? Possibilissimo. Nel frattempo, però, l’impegno al rispetto degli utenti e delle loro informazioni personali deve essere mantenuto e il fatto che il “pioniere” Clubhouse, nelle proprie condizioni d’uso, non abbia previsto nessuna conformità alle regole previste dal GDPR lascia aperti ancora molti dubbi, insieme a quelli dei possibili utilizzi dei contenuti delle conversazioni. Ma è ormai certo che presto ne sentiremo parlare nuovamente.

Anziché fermarsi al lato social, i big potrebbero però guardare oltre e in altre direzioni, ad esempio verso una declinazione più social di soluzioni come Robinhood, la piattaforma di trading senza intermediazione, destinata ai piccoli investitori interessati alle criptovalute o a pacchetti di titoli quotati a Wall Street, gratuita per chi sceglie di sorbirsi inserzioni pubblicitarie, a pagamento per chi preferisce abbonarsi. Ma in entrambe le versioni rischiosa, per chi si avventura da solo in operazioni finanziarie senza alcun supporto. Questa è una boutade provocatoria ovviamente, ma non è detto che il futuro di questo settore non contempli questa possibilità.

 
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Pubblicato da su 11 febbraio 2021 in news

 

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Skullbreaker Challenge? No, grazie!

Una nuova “sfida” per ragazzi si propaga attraverso i social network, ma è di quelle da evitare: si chiama Skullbreaker Challenge (nata in sudamerica come rompecráneos
e anche tradotta in italiano come spaccatesta o rompicranio), è stata veicolata da alcuni video su Tik Tok ed è meglio non sottovalutarla o ignorarla, ma saperne di più perché – per dirlo con le parole di una vecchia pubblicità progresso – “se la conosci, la eviti”.

La sfida prevede che due ragazzi, complici tra loro, individuino un terzo ragazzo, che sarà la loro vittima. Lo invitano a giocare e si mettono al suo fianco, con la vittima che rimane in mezzo a loro. Iniziano a saltare, a turno. Quando per chi è in mezzo è il momento di saltare, i due a fianco lo colpiscono alle gambe facendogli uno sgambetto, il poveretto perde l’equilibrio e cade all’indietro.

Bel gioco da menti bacate!!! Il rischio è di farsi male alla schiena, ma innanzitutto di rompersi la testa. Fate attenzione e passate parola ad amici e conoscenti, genitori o figli che siano. E, soprattutto, rifiutate con decisione l’invito a partecipare a questa stupidaggine!

PS: troverete questa notizia nei siti antibufala, che sostanzialmente la certificano come vera. Le uniche bufale riguardano notizie che parlano di alcuni ragazzi che sarebbero morti in seguito a questo “giochetto”, ma sono state smentite. Verissima, invece, è la possibilità di farsi del male, riportando danni anche molto seri.

 
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Pubblicato da su 20 febbraio 2020 in scienza, social network

 

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Smartphone a scuola? No, “media education”

Quando Valeria Fedeli – due anni fa come Ministro dell’Istruzione – definì lo smartphone “uno strumento che facilita l’apprendimento, una straordinaria opportunità che deve essere governata” per sdoganarne l’impiego a scuola da parte degli studenti “per migliorare l’apprendimento ed incrementare l’efficienza”, avevo manifestato un certo scetticismo:

Esistono criticità da risolvere prima: in buona parte delle nostre scuole oggi mancano infrastrutture tecnologicamente adeguate (soprattutto in termini di connettività – ad Internet e interna – e di attrezzature) e sul fronte degli insegnanti è necessario provvedere ad una formazione idonea all’acquisizione di competenze mirate in tal senso. Naturalmente attuare tutto questo non è possibile senza provvedere ai necessari investimenti in questa direzione, un presupposto fondamentale per porre le basi di un serio processo di alfabetizzazione digitale.

Per questo apprendo con piacere che l’attuale ministro Lucia Azzolina ha un approccio diverso:

“Nativi digitali non significa saper usare con consapevolezza i media e i social media, gli studenti hanno bisogno di una bussola, devono essere guidati. La scuola ha questo compito, insieme alle Istituzioni, come la Polizia postale, di orientare e formare gli studenti al mondo digitale”.

Si spera che questo compito possa essere supportato da adeguati investimenti. Altrimenti, saranno altre parole al vento.

 
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Pubblicato da su 3 febbraio 2020 in news

 

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Carta d’identità necessaria per i profili social? Ancora con ‘sta proposta?

Presentare la carta d’identità per aprire un profilo social è un’idea inutile e priva di fondamento – ma soprattutto proporre una legge in tal senso – è semplicemente una colossale perdita di tempo. Dirlo così potrebbe sembrare semplicistico, per cui è opportuno spiegarsi meglio su un argomento che – al momento – per quanto mi risulta ha trovato applicazione solo in un paio di regimi orientali come la Cina e la Corea del Nord.

Leggo che si vuole contrastare innanzitutto l’anonimato online… che effettivamente non esiste. E’ vero che ci sono profili che si presentano con un nickname, ossia uno pseudonimo, ma ogni utente è tracciato e identificabile: il dispositivo con cui ci si connette ad Internet è individuabile in base all’indirizzo IP (una sorta di etichetta che identifica in modo univoco un dispositivo connesso alla rete) e la sua identificazione è possibile chiedendo una rogatoria, in virtù della quale un magistrato ordina all’azienda che gestisce il social network di fornire i dati dell’utente. La rogatoria non può essere chiesta per un “illecito amministrativo” (come gli insulti), si chiede per i reati come l’istigazione alla violenza o all’odio per motivi razziali, etnici, religiosi.

Altro fattore non trascurabile: se per iscriverci ad un social network fossimo tenuti ad inviare un file pdf o jpg, dite che potrebbe andare bene questo “documento”?
Per esempio, per il gruppo Facebook (inteso come azienda), chi dovrebbe verificare l’identità di una trentina di milioni di utenti italiani (che su oltre due miliardi di iscritti al social network sarebbero gli unici al mondo ad essere costretti per legge ad inviare il proprio documento di identità)?

Oltre a quanto detto sopra, va considerato che moltissimi haters guadagnano visibilità proprio perché si presentano “a viso scoperto” con nome e cognome. Quindi anonimato de che? La Polizia delle Comunicazioni è in grado di identificare i leoni da tastiera.

Ah certo, è possibile nascondere il proprio indirizzo IP (è una forma di anonimato riconosciuta dall’ONU a difesa della libertà di espressione e di dissenso), la tecnologia permette di falsificarlo e quindi di aggirare l’identificabilità dell’utente. Ma chi ha questa opportunità non ha nessuna difficoltà ad agire presentandosi in rete come cittadino non italiano, esattamente come chi crea account fasulli per business. La legge di cui si parla, invece, sarebbe applicabile solamente nel nostro Paese, pertanto riguarderebbe solamente i comuni cittadini.

Ma perché rimanere nella superficialità delle restrizioni censorie? Si potrebbero invece allargare tutele e garanzie, difendendo la libertà di opinione, esercitando in parallelo ad un’attività di verifica sui social network affinché mantengano la massima trasparenza sulle modalità di gestione dei dati personali dei propri iscritti e sulla corretta applicazione delle policy relative ai contenuti pubblicati.

 
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Pubblicato da su 29 ottobre 2019 in news

 

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WhatsApp “vietato ai minori di 16 anni”, l’ultimo dei vostri problemi

A chi avesse appena appreso con sconforto che WhatsApp nell’Unione Europea sarà “vietato” ai minori di 16 anni, ricordo quanto già indicato dal sottoscritto lo scorso gennaio: al netto della possibilità, da parte dei genitori, di autorizzare il proprio figlio ad utilizzarlo (purché abbia almeno 13 anni), il problema di fondo non è la possibilità di usare o non usare lecitamente l’applicazione (che comunque non chiede l’età a nessun utente all’atto dell’iscrizione), ma la consapevolezza – spesso non piena – di ciò che significa utilizzare questo tipo di servizi:

Quindi, laddove non arrivasse il buon senso – quel buon senso che dovrebbe spingere ogni genitore alla consapevolezza di ciò che fanno i figli di cui sono responsabili – arriva una legge per ricordare ai genitori di interessarsi e occuparsi responsabilmente anche dell’attività svolta online dai propri figli (dal momento che ciò che fanno offline, cioè nel cosiddetto “mondo reale”, è oggettivamente e indiscutibilmente di loro interesse e responsabilità).

A questo proposito può inoltre risultare interessante leggere il parere espresso in merito dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adoloscenza, relativo ad ogni tipo di servizio online, presentato con queste parole:

“Non è opportuno abbassare la soglia dei 16 anni prevista dal Regolamento” osserva la Garante Filomena Albano. “I diritti di ascolto, partecipazione, espressione e quello di essere parte della vita culturale e artistica del Paese previsti dalla Convenzione internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza devono dar vita a una ‘partecipazione leggera’ dei minorenni. In altre parole, non gravata da pesi e responsabilità che competono, da una parte, a chi esercita la responsabilità genitoriale e, dall’altra, ai contesti educativi e istituzionali nei quali sono inseriti i ragazzi”.

Naturalmente questo ragionevole principio va in contrasto con la possibilità – ipotizzata lo scorso settembre – di introdurre a scuola l’utilizzo dello smartphone da parte degli studenti, a mio avviso possibile solo dopo un percorso che passa dal conseguimento di altri obiettivi fondamentali. Riassumendo in breve quanto considerato a suo tempo parlavo di infrastrutture pronte, insegnanti preparati e un ambiente familiare consapevole.

Lo stesso Garante motiva la sua condivisibile cautela con la scarsa consapevolezza digitale:

 “Ad oggi, in Italia – osserva l’Autorità garante – non si registra una diffusione capillare di programmi educativi tarati specificatamente sulla ‘consapevolezza digitale’. Serve che le agenzie educative e le istituzioni predispongano e attuino un programma in tal senso, accompagnato da uno studio sulla necessaria consapevolezza digitale da parte delle persone di minore età. In assenza non è possibile immaginare una soglia per il consenso autonomo dei minorenni più bassa di quella stabilita a 16 anni a livello europeo”.  I 16 anni, d’altra parte, rappresentano già nell’ordinamento giuridico italiano un’età di passaggio verso la maturità per altre situazioni giuridicamente rilevanti.

E proprio nel contesto delle situazioni giuridicamente rilevanti andrebbe inquadrata una frase dei termini di utilizzo di WhatsApp, che nell’immagine qui riportata si trova all’ultimo paragrafo e che traduco:

Oltre ad avere l’età minima richiesta per utilizzare i nostri Servizi in conformità alla legge applicabile, se non hai un’età sufficiente da avere l’autorità per accettare i nostri Termini nel tuo Paese, il tuo genitore o tutore deve accettare i nostri Termini a tuo nome.

Un servizio che non richiede pagamento da parte dell’utente non perde le sue caratteristiche formali, quindi accettarne i termini di utilizzo significa accettare le condizioni di un contratto a titolo gratuito. Per un cittadino italiano, il contratto è definito dall’art.1321 del Codice Civile e la sua accettazione è, a tutti gli effetti, un’azione legata a quella capacità di compiere atti che – come dice l’art. 2 del Codice Civile – ha come presupposto la maggiore età.

Pensiamoci.

 
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Pubblicato da su 26 aprile 2018 in news

 

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Perché le fake news si diffondono più dei veri scoop

Krista Kennell / Stone / Catwalker / Shutterstock / The Atlantic

Perché le fake news si diffondono più rapidamente delle notizie vere? Perché ci piacciono “notizie inedite” o, in altri termini, cose nuove. Questa risposta che sembra basata sulle dinamiche della psicologia umana viene da un’analisi condotta su Twitter, uno dei più efficaci veicoli delle bufale, nell’ambito di una ricerca del MIT (Massachusetts Institute of Technology) che ha analizzato 126mila cascade (flussi di conversazioni) pubblicate tra il 2006 e il 2017 con oltre 4,5 milioni di retweet. Gli argomenti dei tweet che si propagano con maggiore facilità e rapidità sono la politica, le leggende metropolitane, gli affari, il terrorismo, la scienza, l’intrattenimento, le calamità naturali. E’ stato rilevato che le “bufale” hanno il 70% di probabilità in più di essere ritwittate e si diffondono sei volte più velocemente delle notizie vere.

Secondo le conclusioni a cui sono giunti gli autori di questa ricerca, sui social network, le persone che ottengono più facilmente attenzione sono coloro che per prime condividono informazioni precedentemente sconosciute – anche se probabilmente false – e chi condivide informazioni nuove è visto come più informato di altri, quindi conquista autorevolezza (anche se non supportata da reale attendibilità). Le fake news per loro natura sono caratterizzate da contenuti inediti (quando sono note è perché sono già state smascherate) e, dal momento che le persone tentano di catturare l’attenzione altrui per riscuotere like e retweet (che sono il “premio” di chi utilizza i social network alla ricerca di visibilità e popolarità), il loro sforzo nel diffonderle fa sì che si propaghino rapidamente.

Più o meno come avviene con uno scoop, inteso come “colpo giornalistico, cioè notizia sensazionale che un giornalista riesce ad avere e un giornale a pubblicare in esclusiva precedendo la concorrenza”. Ma in confronto allo scoop, la bufala riscuote maggiore successo perché intercetta i sentimenti del pubblico, assecondandoli. In altre parole, e generalizzando: molte persone diffondono le notizie che danno ragione alle loro aspettative e sono portate a non verificarle, perché intimamente hanno la certezza che siano vere. D’altronde, non esiste sicurezza migliore di quella che ci dà il nostro cuore.

 
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Pubblicato da su 10 marzo 2018 in news

 

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Informarsi (solo) dai social è come credere al primo che passa

keepwiseanddontclickthebait

Oggi l’Ansa è uscita con una notizia-rivelazione:

Su web giovani non distinguono news vere

Maggioranza crede a tutto quello che legge su social

Dalla ricerca – condotta a Stanford su un campione di 7.804 studenti – sono emersi dati “sconcertanti”:

l’82% degli studenti non è in grado di distinguere tra una vera notizia e un contenuto sponsorizzato, mentre il 40% ha legato automaticamente una foto di un cerbiatto con malformazioni a una notizia su Fukushima, anche se nell’immagine non c’era nessun accenno a dove fosse stata scattata. Più di due terzi degli intervistati non ha trovato nessun motivo di dubitare di un post scritto da un dirigente bancario che affermava che i giovani hanno bisogno di piani finanziari, mentre solo un quarto del campione è stato in grado di distinguere il vero profilo Facebook di Fox News da uno fittizio.

Questa ricerca pubblicata dall’Università di Stanford non fa altro che confermare concetti ormai noti e consolidati, e non solo relativi ai giovani:

  1. è enormemente sbagliato e dannoso leggere e condividere in modo acritico
  2. è necessario porre attenzione a ciò che si legge su Internet. Sempre.
 
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Pubblicato da su 24 novembre 2016 in news

 

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Il paradosso dei Radiohead

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Che i Radiohead siano spariti dal web (piallando ogni traccia social alla faccia dei followers) per raggiungere la più ampia visibilità possibile in vista del lancio del prossimo album? 😉

 
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Pubblicato da su 2 Maggio 2016 in business, comunicazione, Internet, media

 

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