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Protetti e spiati

Qual è il mestiere di chi lavora per un’agenzia di intelligence? Raccogliere ed elaborare informazioni, senza limiti sugli strumenti utilizzabili, e parte integrante di questa attività è ovviamente lo spionaggio. Per cui non troveremmo nulla di stupefacente nell’apprendere che i servizi segreti USA (cioè la CIA) e quelli tedeschi (cioè la BND) hanno spiato le comunicazioni di oltre un centinaio di Stati per mezzo secolo. Ma il problema è nel “come” hanno condotto per decenni quell’attività di spionaggio, cioè utilizzando i dispositivi di crittografia prodotti da un’azienda svizzera, la Crypto AG. I Paesi adottavano quei dispositivi allo scopo di mettere in sicurezza le proprie comunicazioni, ignorando un’informazione fondamentale: la Crypto era “controllata” – dal punto di vista azionario, quindi a livello di proprietà – proprio da CIA e BND.

L’azienda ha iniziato questa attività durante la seconda guerra mondiale, trovando nell’esercito USA il suo primo cliente. Cavalcando l’evoluzione tecnologica, è cresciuta fino ai giorni nostri, fornendo a vari Paesi nel mondo i propri dispositivi in grado di criptare le comunicazioni più riservate e protette, che però servizi segreti americani e tedeschi erano perfettamente in grado di decodificare. CIA e BND avrebbero acquisito la proprietà della Crypto nel 1970, mediante una fondazione con sede nel Liechtenstein.

Secondo quanto ricostruito dall’inchiesta congiunta dal Washington Post e dalle redazioni giornalistiche della ZDF (emittente tedesca) e della SRF (emittente svizzera), l’agenzia di intelligence avrebbe ceduto le proprie azioni nel 1994, mentre la CIA sarebbe rimasta azionista fino al 2018, quando la proprietà è passata all’azienda svedese Crypto International, che in un comunicato pubblicato in questi giorni (addirittura sulla propria homepage) prende le distanze da tutta la vicenda, definendola “molto angosciante”.

Questa partnership sembrerebbe, a tutti gli effetti, uno dei segreti meglio custoditi durante la Guerra Fredda, che emerge ora proprio da questa inchiesta, che rivela un’enorme operazione di controllo, indicata prima con il nome in codice “Thesaurus” e poi “Rubicon”, e che l’inchiesta definisce “il colpo di stato dell’intelligence del secolo”.

In pratica, i governi clienti di Crypto pagavano inconsapevolmente miliardi di dollari a USA e Germania Occidentale perché potessero leggere le loro comunicazioni più riservate e la “maschera” di azienda operativa in un Paese neutrale come la Svizzera conferiva alla stessa Crypto un’etichetta di affidabilità che le permetteva di entrare sia in mercati alleati che in Paesi “ostili” (ad esempio Libia, Iraq, Iran). Nel portafoglio di Crypto c’erano anche l’Italia e lo Stato Vaticano (che nel frattempo, però, non avrebbero più rinnovato i contratti di fornitura). Assenti Russia e Cina, dato che induce a pensare che i due Paesi non riponessero fiducia nel produttore svizzero.

Sicuramente la vicenda non si chiude qui e avremo modo di parlarne di nuovo, molto probabilmente con nuovi dettagli!

 

 
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Pubblicato da su 11 febbraio 2020 in news

 

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L’epoca degli scandali a orologeria e delle apparenze ingannevoli

Avete mai notato come alcune notizie di importanza critica emergano in circostanze particolari? L’ultimo eclatante esempio lo troviamo nella campagna presidenziale degli Stati Uniti: dal suo inizio, e in particolar modo prima di ogni dibattito tra Hillary Clinton e Donald Trump, informazioni, scandali e testimoni legati a fatti risalenti anche ad anni prima spuntano come funghi. Nel caso dei due candidati presidenziali, da quando sono entrambi nella stessa arena la sfida è senza esclusione di colpi, nonostante fino a poco tempo prima i rapporti fossero più che amichevoli…

Questo ci insegna due cose: la prima è che non bisogna fermarsi alla superficie di ciò che appare, ma andare sempre oltre; la seconda è che nessun segreto è inviolabile. Se nessuno lo fa emergere nel momento in cui lo scopre, è semplicemente perché non serve portarlo alla luce in quel momento. Le informazioni vengono raccolte sempre, immagazzinate quando non servono e portate al pubblico quando possono esprimere il massimo del loro valore, sia esso esaltatorio o diffamatorio. E comunque si rimane – apparentemente e forzatamente – tutti amici finché uno non mira a conquistare lo stesso obiettivo.

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Pubblicato da su 10 ottobre 2016 in news

 

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Molte app, molto potere

Molte app, molto potere

Ieri sera pensavo all’insistenza di Facebook nell’invitare i propri utenti ad utilizzare Facebook Messenger sul proprio smartphone. Ok, la comunicazione diffusa non è esattamente un invito:

Ciao, Desideriamo informarti che i messaggi verranno spostati dall’applicazione Facebook a Messenger, la nostra applicazione gratuita e più veloce, che rappresenta uno strumento affidabile per scambiarsi i messaggi quotidianamente.

All’orizzonte, in un prossimo futuro – secondo Marco Valerio Principato – si intravede l’intento di avere un’unica app, frutto dell’unione di WhatsApp (già acquistato da Facebook) con Messenger, che si appoggi ai contatti memorizzati sullo smartphone per servizi di comunicazione scritta e parlata, chat (già possibili su entrambe le applicazioni) e telefonate su Internet (oggi consentite solo da FB Messenger). E’ uno scenario più che verosimile per quanto riguarda la sfera delle comunicazioni dirette: anziché mantenere attive due applicazioni con funzionalità pressoché identiche, è possibile – e forse preferibile – unire le risorse di entrambe in un’unica soluzione, più performante e in grado di raccogliere il controllo di un maggior numero di utenti e di contatti.

Intanto, sullo smartphone, gli utenti si ritroveranno due app “di Facebook”: quella per gestire il profilo del social network e quella per la comunicazione diretta a uno o più amici, scorporata dall’app principale. Probabilmente si tratta anche di una necessità tecnologica: concentrando tante funzioni in se’, l’app principale di Facebook può rivelarsi esosa in termini di risorse e su uno smartphone può avere qualche difficoltà a funzionare sempre in modo efficiente.

Meglio quindi suddividere il “lavoro” in più app, scelta che aiuta anche a creare una sorta di ecosistema, come sembra di capire da LinkedIn (con le sue sei app) e Foursquare, dal momento in cui ha creato lo spin-off Swarm. “Molte app, molto potere” si potrebbe dire, e noi sappiamo che il mondo di Facebook non finisce lì: recentemente è stata lanciata anche Slingshot (altra app per lo scambio di messaggicon foto e video che si pone in concorrenza con Snapchat, su cui Zuckerberg non è riuscito a mettere le mani) e non dimentichiamo che anche Instagram ormai fa parte della famiglia.

Mi fermo alle app di successo o attualmente più promettenti (dovrei aggiungere anche Paper, aggregatore di news che non mi sembra abbia sfondato, però c’è) e ipotizzo una strategia di proliferazione di app allo scopo di conquistare sempre più il controllo degli utenti attraverso i loro smartphone, per svolgere una sempre più articolata attività di raccolta dati e di profilazione a scopo di marketing e pubblicità, business irrinunciabile perché vitale, dato che tutti questi servizi sono “gratuiti”.

 
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Pubblicato da su 31 luglio 2014 in news

 

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