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Vuoi sapere chi ti stalkera sui social? Lascia perdere

Ultimamente mi è capitato di trovare inserzioni pubblicitarie relative ad app che promettono di svelarvi chi vi sta stalkerando online, cioè chi visita il vostro profilo sui vari social network. Funzionano? Sgombriamo il campo da ogni possibile dubbio: da Instagram e Facebook, oggi, ottenere questo risultato non è possibile, se l’obiettivo è quello di avere nome, cognome e numero di passaggi sul profilo.

Chiariamo un aspetto: tecnologicamente è possibile saperlo, tant’è che LinkedIn offre questa opzione (a pagamento), dando così agli utenti l’opportunità di sapere nome e cognome di chi ha visitato il loro profilo. Instagram e Facebook invece non lo permettono e nemmeno le varie app di terze parti che si possono trovare nei vari store.

Detto questo, facciamo luce per trenta secondi su quelle app/servizi che promettono di darvi informazioni su chi vi stalkera: se scaricate e utilizzate una di queste app non sarete agevolati nel rintracciare chi visita il vostro profilo, anzi… agevolerete chi ha sviluppato l’app nella raccolta di vostre informazioni personali e riservate, mettendole a disposizione di persone che non conoscete, perché queste app richiedono proprio l’accesso diretto al vostro profilo, attraverso le vostre credenziali personali, che non dovreste mai trasmettere a nessuno.

Vale la pena consegnare i vostri dati e le vostre credenziali a degli sconosciuti, che potrebbero addirittura impossessarsi del vostro account, solo per la curiosità di sapere chi visita il vostro profilo sui social network? No, non ne vale la pena. Quindi lasciate perdere.

 
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Pubblicato da su 4 giugno 2022 in news

 

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Green Pass, qualche informazione

L’estate 2021 verrà ricordata (anche) per l’introduzione dell’obbligo del Green Pass, (che formalmente non è un obbligo, ma poco cambia se una legge vieta l’accesso a determinati luoghi, servizi o eventi in assenza di questo requisito).  In questa sede non ne discuterò l’opportunità o le caratteristiche vincolanti, ma illustrerò informazioni utile per coloro che fossero interessati all’argomento, partendo da quanto pubblicato nel sito dedicato alla Certificazione Verde Vovid-19: https://www.dgc.gov.it/web/.

Il certificato non è una patente di immunità, ma serve ad attestare che un cittadino (con età a partire dai 12 anni):

  • si è sottoposto a vaccinazione anti COVID-19 (in Italia il Green Pass viene emessa sia dopo la prima dose che al completamento del ciclo vaccinale);
  • è negativo ad un test molecolare o antigenico effettuato nelle ultime 48 ore;
  • è guarito dal COVID-19 negli ultimi sei mesi.

La sua utilità deriva dal fatto che uno di questi tre requisiti permetterà, dal 6 agosto 2021, l’accesso a questi contesti:

  • Servizi per la ristorazione svolti da qualsiasi esercizio per consumo al tavolo al chiuso
  • Spettacoli aperti al pubblico, eventi e competizioni sportivi
  • Musei, altri istituti e luoghi della cultura e mostre;
  • Piscine, centri natatori, palestre, sport di squadra, centri benessere, anche all’interno di strutture ricettive, limitatamente alle attività al chiuso;
  • Sagre e fiere, convegni e congressi;
  • Centri termali, parchi tematici e di divertimento;
  • Centri culturali, centri sociali e ricreativi, limitatamente alle attività al chiuso e con esclusione dei centri educativi per l’infanzia, i centri estivi e le relative attività di ristorazione;
  • Attività di sale gioco, sale scommesse, sale bingo e casinò;
  • Concorsi pubblici.

Questi contesti sono stabiliti dal Decreto-Legge 23 luglio 2021, n. 105, ma non è escluso che vengano definiti ulteriori aggiornamenti su nuovi ambiti, come ad esempio i trasporti. Al momento, comunque, il requisito del Green Pass riguarda solamente le fasce d’età che possono sottoporsi a vaccinazione contro il Covid, per questo motivo non è necessario se non si hanno 12 anni d’età.

Come ottenerlo? Per averlo esistono iter differenti: chi possiede un’identità digitale con SPID o CIE (Carta d’Identità Elettronica) ha più opportunità, chi ancora non ne è provvisto dovrà seguire un’altra strada e partirò proprio da questa, supponendo che le maggiori difficoltà siano legate alla mancanza di questo presupposto dell’identità digitale, sempre più necessaria per non essere tagliati fuori dalla possibilità di usufruire di vari servizi.

Chi non ha ricevuto il codice AUTHCODE (trasmesso ad esempio via sms a chi si è sottoposto alla vaccinazione) può chiamare a qualunque ora il numero 1500 che offre informazioni e, dal 12 luglio 2021, consente anche il recupero del codice che sblocca la possibilità di ottenere la certificazione. Oltre all’Authcode, è possibile ottenerla anche con uno dei codici univoci ricevuti con il tampone molecolare (CUN), il tampone antigenico rapido (NRFE) o il certificato di guarigione (NUCG). Per coloro che non hanno la possibilità di fare da se’ via web, il Ministero della Salute ha previsto la possibilità di chiedere supporto al medico e il farmacista che, accedendo con le proprie credenziali al Sistema Tessera Sanitaria, potranno recuperare la Certificazione verde COVID-19.

Per quanto riguarda invece le possibilità digitali per ottenere il certificato, ecco i canali disponibili:

Naturalmente per procedere è necessario avere le informazioni riportate sulla propria tessera sanitaria e, come visto sopra, uno dei codici univoci ricevuti in seguito a tampone o a guarigione, oppure il codice autorizzativo (AUTHCODE) ricevuto via e-mail o SMS ai recapiti comunicati in sede di prestazione sanitaria

 
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Pubblicato da su 24 luglio 2021 in news, PA

 

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Non solo Signal

Elon Musk qualche giorno fa ha twittato “Use Signal, indicando questa app come alternativa a WhatsApp che, con le nuove condizioni di utilizzo, sta preoccupando molti utenti. Stabilito che per Unione Europea e Regno Unito le modalità di condivisione di informazioni con Facebook non cambieranno rispetto a quelle già in uso da qualche anno, è comunque legittimo guardarsi in giro, possibilmente nella direzione di servizi più rispettosi dei dati personali degli utenti. Ma in questo scenario esiste più di una soluzione.

Signal ha l’etichetta di app sicura perché non acquisisce la mole di dati che altre app raccolgono, oltre che per il suo sistema crittografico. L’organizzazione alle sue spalle, la Signal Foundation, è guidata da Matthew Rosenfeld, in arte Moxie Marlinspike, fra gli autori del Signal Protocol, un sistema di crittografia end-to-end che ha il vantaggio di essere open source e che è alla base dei sistemi di cifratura utilizzati da Skype, Messenger… e WhatsApp.

Un fattore che richiede attenzione sono i metadati: si tratta di informazioni relative agli interlocutori di una conversazione (con chi), ai dati temporali (a che ora e quanto tempo, quanto rimani al telefono, quanto sei online). Signal non li acquisisce, mentre WhatsApp sì. In verità li raccoglie anche Telegram che inoltre, al pari di Messenger, non applica la crittografia end-to-end in modalità predefinita (deve essere l’utente ad attivarla; Signal invece non permette neppure di disattivarla). Altro plus di Signal: la possibilità di avere messaggi che si autodistruggono.

Ma tra le app sicure disponibili ci sono anche Threema e Wire. L’utente che inizia ad utilizzare Threema rimarrà colpito dal fatto che questa app non utilizza il numero telefonico come identificatore, prassi invece seguita da WhatsApp e Signal, ad esempio. L’ID utente è una sequenza alfanumerica frutto dello scorrimento del dito della mano mentre sul display compare una matrice di lettere e numeri che cambiano continuamente. Contatti e gruppi rimangono memorizzati solo sul telefono (non nell’applicazione e quindi non vengono trasmessi al cloud). Un minus di Threema è che non è gratuita, è quindi da valutare l’investimento di Eur 3,99.

Anche Wire assicura la crittografia end-to-end (a chat e chiamate vocali e video, anche di gruppo), consente la condivisione del proprio schermo con un utente e un gruppo, e può essere utilizzata da otto dispositivi differenti (sincronizzati). Fra i suoi plus, chiamate di gruppo fino a 300 interlocutori e la possibilità – a pagamento – di invitare un non-utente (privo di account) in una room protetta, accessibile da browser. Minus: raccoglie i metadati.

 
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Pubblicato da su 14 gennaio 2021 in news

 

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Immuni, pronta a giugno? Per chi?

App Immuni, Paola Pisano: «L'ho scelta io assieme a Speranza ...

Immuni sarà pronta “per i primi di giugno”, parola del viceministro della Salute Pierpaolo Sileri, intervenuto durante la trasmissione 24Mattino in onda su Radio24, a proposito della app che, ha aggiunto Soleri, “è un tracing importantissimo e quando sarà attivo darà ulteriori informazioni su tracciamento e diffusione della malattia”. Non è tutto: a giugno sarà attiva – per una fase sperimentale – in tre regioni italiane: Liguria, Abruzzo, Puglia. Oltre a queste è prevista la partecipazione delle sedi Ferrari di Modena e Maranello, in cui è stato varato il progetto “Back on Track” (patrocinato dalla Regione Emilia Romagna) per il riavvio dell’attività produttiva in sicurezza.

Al netto di ogni critica sulle problematiche legate alla riservatezza dei dati personali degli utenti, nonché di tutte le criticità evidenziate dal Copasir, si può vedere con favore il fatto che sia stato adottato un approccio open, ma non si può fare a meno di constatare che un punto critico di questa app potrebbe essere proprio la sua efficacia: iniziare un test a giugno, dopo un’oggettiva fase di rallentamento, in contesti di contagio che escludono le zone maggiormente coinvolte, senza alcun obbligo di utilizzo (che non può essere introdotto), sono tutti fattori che abbassano le probabilità di successo.

Altro nodo da sciogliere: nel momento in cui la app dovrà agire con gli alert in seguito al rilievo di contatti con soggetti “positivi”, i vari sistemi sanitari (regionali) dovranno affrettarsi a correlare i tamponi effettuati (auspicabilmente numerosi) agli utenti da avvisare affinché si possa provvedere al loro opportuno isolamento, e alla conseguente attivazione di nuove analisi (nuovi tamponi) per chi a sua volta è entrato in contatto con i soggetti posti in isolamento. Per puntare alla maggiore efficacia si dovrebbe lavorare in modo che non esistano barriere tra le regioni, soprattutto perché – anche in una fase di ridotta mobilità – vanno considerati anche i contatti avvenuti tra persone di regioni diverse, scenario non infrequente, soprattutto se riguarda aree di confine. E’ necessario che le regioni, con le loro aziende sanitarie, siano pronte e sollecite a queste operazioni, altrimenti sarà tutto inutile. Già una sperimentazione mirata a sole tre aree – non in contatto tra loro – abbatte in partenza queste opportunità.

 
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Pubblicato da su 26 Maggio 2020 in news

 

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Un piccolo problema delle app per tracciare gli spostamenti

Monitoraggio dei telefoni cellulari per contrastare la diffusione del nuovo coronavirus: Sì o no? Tra gli addetti ai lavori si fa sempre più caldo il dibattito su una app per tracciare gli spostamenti e contrappone chi considera le problematiche legate alla privacy dei cittadini a chi ritiene che l’obiettivo della salute pubblica giustifichi una minor attenzione alla riservatezza.

La app consisterebbe in pratica in uno strumento di geolocalizzazione – che con uno smartphone può essere attuata con l’ausilio del GPS (di cui sono dotati gli smartphone) e delle celle corrispondenti. E sull’affidabilità di queste rilevazioni mi vengono in mente due aspetti non trascurabili.

Il primo consiste nella concreta possibilità di far rilevare ad uno smartphone una posizione geografica fasulla, alterando il GPS per depistare le app che lo utilizzano; ok, non è un’operazione alla portata di chiunque, ma tenete presente che ci sono ragazzi che giocano a Pokemon Go che lo fanno per trovare i Pokemon in giro per il mondo.

La rilevazione attraverso le celle è utile più che altro ad accertare uno spostamento: in teoria, dalle antenne è possibile misurare la distanza da un certo terminale in base all’intensità del segnale e facendo una triangolazione tra celle è possibile essere più precisi. In pratica le celle possono avere conformazioni differenti, e soprattutto fuori città la triangolazione può essere anche molto approssimativa. Se l’obiettivo è individuare un contatto ravvicinato tra persone, potrebbe non essere il massimo dell’affidabililtà. Anche perché nell’ambito della rilevazione degli spostamenti di una persona si può arrivare ad un risultato simile a quello ottenuto dal tracking effettuato da Google e riprodotto nella figura sotto riportata: come si può osservare in questo dettaglio di un mio viaggio effettuato in una giornata, secondo la rilevazione io avrei tagliato per i campi e attraversato il fiume anziché percorrere la strada indicata in rosso (cosa che ho fatto in realtà sia in andata che al ritorno).

 

 

 
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Pubblicato da su 26 marzo 2020 in news

 

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Autodichiarazione sullo smartphone? Per la Polizia non è valida

Chi vi scrive non è esattamente un fan dell’autodichiarazione, intesa – in questo periodo di emergenza sanitaria – come quel documento cartaceo con cui è necessario motivare i propri spostamenti. Personalmente il ricorso a questa soluzione mi infastidisce per due aspetti (più uno):

  1. la contraddizione di fondo: l’autodichiarazione, o autocertificazione, è stata introdotta a suo tempo per semplificare e ridurre il peso burocratico, ossia la carta richiesta per le certificazioni richieste dagli enti, che troppo spesso complicano la vita del cittadino. Però per gli spostamenti in questo periodo (per necessità di famiglia, di salute o lavorativi), l’autodichiarazione è il pezzo di carta indispensabile a indicare perché non restiamo a casa;
  2. la potenziale pericolosità: utilizzare un modulo stampato, firmato, controfirmato e toccato con mano può farci partecipare attivamente alla diffusione del contagio;
  3. l’impossibilità di certificare di non essere risultato positivo al COVID-19: se il cittadino non è stato sottoposto al tampone, perché dovrebbe assumersi la responsabilità di dichiarare in modo formale un fatto mai accertato? Si tratta inoltre di un aspetto non verificabile dalle forse dell’ordine che ricevono questo documento.

“Perché non digitalizzarla?” si sono chiesti in molti. In effetti avere una versione digitale di questo documento risolverebbe i due aspetti indicati sopra. E qualcuno ci ha pensato e ha realizzato alcuni strumenti. C’è chi ha predisposto un programma che ne permette la compilazione online, agevolandone la stampa, ma sempre di carta si tratta, e c’è chi invece ha pensato di realizzare una app per realizzarla con lo smartphone e molti utenti hanno così pensato di poterla mantenere memorizzata sul dispositivo, per mostrarla dal display in caso di controllo.

Problema risolto? Niente affatto. Perché per legge il documento va stampato.  La Polizia di Stato, in un comunicato opportuno in quanto chiarificatore, dice testualmente che ricorrere ad applicazioni per smartphone, che sostituirebbero la autocertificazione cartacea, è in contrasto con le prescrizioni vigenti:

[…] L’autocertificazione deve infatti essere firmata sia dal cittadino sottoposto al controllo che dall’operatore di polizia, previa identificazione del dichiarante. L’autocertificazione va inoltre acquisita in originale dall’operatore che effettua il controllo, per le successive verifiche.

Sotto altro profilo, si evidenzia come il ricorso a servizi non ufficiali né autorizzati da Autorità pubbliche per la compilazione del modello di autodichiarazione, esponga i cittadini ad una ulteriore e non secondaria insidia, legata al rispetto della dimensione della loro privacy.

Si ricordi, infatti, come i dati contenuti nel modello di autodichiarazione consentano di rivelare non soltanto la frequenza e la tipologia dello spostamento dell’individuo ma altresì le ragioni – personali e riservate – che giustificano tale spostamento e che possono ricollegarsi ad informazioni sensibili quali lo stato di salute, le esigenze personali le circostanze lavorative.

L’acquisizione e la gestione di tali dati sensibili da parte di soggetti terzi, secondo quanto dispone il Regolamento Europeo sulla Protezione dei Dati (GDPR) e le prescrizioni nazionali in tema di diritto della privacy, sono sottoposte a precisi obblighi in tema, fra l’altro, di correttezza e trasparenza, consenso informato, limitazione del trattamento a specifiche finalità, aggiornamento e soprattutto integrità e riservatezza.

Tali obblighi sono posti a garanzia di tutti i cittadini contro potenziali e pericolosi abusi.

Dello stesso tenore il chiarimento pubblicato dal Ministero dell’Interno. Ergo: se c’è una norma deve essere applicata e fatta rispettare. Se la norma prevede che il documento debba essere cartaceo, la sua versione digitale non è valida. Il modello da utilizzare (che può essere compilato online prima di essere stampato) rimane quello pubblicato dal Ministero dell’Interno: https://www.interno.gov.it/it/notizie/aggiornato-modello-autodichiarazioni

A mio parere, inoltre, meglio non affidare ad altri soggetti i nostri dati online. Non per un sospetto di malafede, ma trasmettere i nostri dati personali a soggetti che non conosciamo a volte può non essere l’idea migliore, anche solo per il fatto che, con i nostri dati, qualcosa potrebbe non andare per il verso giusto. Come in questo caso:

 
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Pubblicato da su 18 marzo 2020 in news

 

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Due o tre cose che Google sa dei suoi utenti

Quando avete un account Google e pensate di non avere nulla da nascondere, probabilmente non vi preoccupate di ciò che un’azienda di quel calibro può conoscere sul vostro conto. Tuttavia esiste più di un motivo per capire che, quantomeno, dovreste comunque esserne pienamente consapevoli.

Piccolo (e non esaustivo) elenco di ciò che viene registrato solo perché avete un account Google:

OK facciamo un esempio sul secondo punto, dove è possibile trovare qualcosa del genere:

Anche se avete dettato qualcosa a WhatsApp – app molto diffusa e amata – e sebbene quella app possa apparire estranea al mondo Google (perché parte della galassia Facebook, insieme a Instagram), in realtà tutto viene memorizzato. Con “tutto” non intendo solo la trascrizione, e quel “Riproduci” che vedete ne è la prova: vi permette di sentire la registrazione di ciò che avete detto e se cliccate su dettagli scoprite perché…

Quindi, se queste informazioni non vi scompongono, va bene così. Se foste invece infastiditi da questa costante registrazione… andate in Gestione attività (https://myaccount.google.com/activitycontrols) e disattivate tutti gli “interruttori”!

Diciamo che, in un mondo in cui non è raro apprendere notizie su violazioni di account, furto di password, vulnerabilità che permettono l’accesso non autorizzato ai dati personali di un account e altre criticità analoghe, forse tutta questa attività di acquisizione dati andrebbe tenuta presente, ecco.

 
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Pubblicato da su 24 Maggio 2019 in news

 

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Giusto vietare le chat “insegnanti-genitori”?

Stop alle chat tra insegnanti e genitori: a Monte San Savino (AR) non sarà più possibile utilizzare WhatsApp come strumento di comunicazione con la scuola. Motivo: il continuo susseguirsi di messaggi di testo, note vocali, foto e video genera grande confusione. Pertanto si dovrà tornare al convenzionale rapporto con i rappresentanti di classe, su cui convergeranno le comunicazioni tra scuola e famiglie.

Bene, ma non benissimo. Per principio io sono contrario ai divieti di utilizzo della tecnologia a scuola, tanto più nella nostra scuola italiana, così bisognosa di investimenti in risorse nel digitale. Sono però altrettanto contrario all’utilizzo di strumenti tecnologici senza l’appropriata educazione ad un impiego virtuoso e utile. In questo senso, WhatsApp e qualunque altra app di messaggistica mainstream (medesimo discorso vale anche per Telegram, per dire) si prestano ad un uso indipendente e disinvolto perché sono strumenti di comunicazione diretta ampiamente diffusi presso tutte le categorie di utenti per la loro immediatezza, nonché per il fatto di essere gratuiti.

Certo, nel contesto di un gruppo “Insegnanti – famiglie” potrebbe essere sufficiente fissare e rispettare alcune regole basilari per limitare la dispersività delle conversazioni, ma la dinamica delle chat favorisce il superamento di quei limiti che dovrebbero permettere di mantenere il dialogo nell’ambito dei binari prefissati: è alquanto difficile pensare di stabilire quali siano gli argomenti trattabili e quelli da evitare, perché ognuno ha una personale concezione del buon senso (talvolta molto limitata) e in un gruppo eterogeneo di persone può essere sorprendentemente facile trasformare in pochi secondi una conversazione garbata in una caciara H24.

Senza rinunciare all’impiego virtuoso della tecnologia, esistono già strumenti utilizzabili nelle comunicazioni tra scuola e famiglia. Fra questi, ad esempio, c’è già il registro elettronico consultabile anche da app, in cui la scuola può agevolmente inserire comunicazioni da far pervenire direttamente ai genitori. Questo strumento potrebbe essere integrato con una piattaforma di messaggistica in grado di dare la possibilità agli insegnanti di inserire, sempre per fare un esempio, messaggi che non prevedano risposta (alla stessa stregua di un post con i “commenti chiusi”), oppure che diano la possibilità di rispondere o inserire altri messaggi in determinati orari (non di lezione).

In mancanza di serie alternative a quanto utilizzato in precedenza, il divieto stabilito rischia di scatenare la sotterraneità delle polemiche, con i genitori che proseguiranno ad utilizzare la chat senza la partecipazione degli insegnanti, anzi potendo parlare “tranquillamente” alle loro spalle. E con una tecnologia in attesa solo di essere sfruttata cum grano salis nel modo migliore possibile.

 
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Pubblicato da su 3 settembre 2018 in istruzione, scuola

 

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Telefonini di Stato: senza abusi risparmieremmo 1,5 milioni ogni anno

7,7 milioni di euro spesi – anzi, buttati – in servizi inutili, chiamate a numeri con sovrapprezzo, servizi di home banking, intrattenimento e televoto, dal 2012 al 2017. E’ il risultato dell’analisi effettuata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla digitalizzazione dell’Amministrazione Pubblica sui 401.839 telefoni cellulari a carico dello Stato. L’analisi è stata condotta nel modo più semplice del mondo: analizzando il traffico telefonico.

Indubbiamente, come si verifica spesso a molti utenti, sarà capitato anche a molti dipendenti e funzionari pubblici di ritrovarsi casualmente abbonati a servizi come “Sexy Land”, “Video Hard Casalinghi”, oroscopo del giorno, ricette e quant’altro fa parte del fitto sottobosco dei business collaterali alla telefonia mobile. Un po’ meno inconsapevoli sono la partecipazione a operazioni di televoto, le donazioni attraverso sms e gli acquisti di beni e servizi: se possono essere considerate “ordinaria amministrazione” le chiamate ai call center di Alitalia o Trenitalia (auspicabilmente per viaggi di servizio), sono quantomeno dubbie quelle effettuate, ad esempio, a TicketOne per l’acquisto di biglietti per i concerti. E’ bello che qualcuno si impegni a non usare il contante a favore della moneta elettronica, ma qui si parla di acquisti fatti tramite cellulari di servizio in uso a dipendenti, funzionari, dirigenti di comuni, province, regioni, ministeri e altri enti pubblici.

Come già detto, questi numeri sono emersi analizzando il traffico telefonico e sarebbe sufficiente un controllo periodico di fatture e bollette per non arrivare a simili sprechi e a situazioni che dovrebbero portare a sanzioni, provvedimenti disciplinari, denunce per peculato. Inoltre, se è vero che una parte considerevole di questa vergogna è rappresentata da quei servizi a pagamento che potrebbero anche essere attivati in modo inconsapevole, perché nessuno ha mai pensato di chiederne il blocco preventivo o la disattivazione?

7,7 milioni in cinque anni, poco più di 1,5 milioni all’anno. Il denaro buttato in questo scempio è denaro pubblico. Non esce direttamente dalle nostre tasche – o dalle tasche di chi lo utilizza – ma è comunque denaro di tutti noi. Perché non impegnarsi a gestirlo con attenzione e impiegarlo in modo più proficuo?

 
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Pubblicato da su 8 agosto 2017 in cellulari & smartphone, news

 

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WhatsApp ora ha la sua applicazione desktop per computer (purché con Windows e Mac OS X)

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Avviso a tutti gli aficionados di WhatsApp: ora c’è anche l’applicazione desktop disponibile per computer. WhatsApp la presenta come un nuovo modo per rimanere in contatto sempre e ovunque:

La nuova applicazione per computer è disponibile per Windows 8+ e Mac OS 10.9+ e viene sincronizzata con WhatsApp presente sul dispositivo mobile. Dato che l’applicazione funziona in modo nativo sul computer, è possibile ricevere le notifiche native del computer, usare gli shortcut della tastiera, e altro ancora.

L’unica novità apprezzabile è probabilmente il vantaggio della visualizzazione delle notifiche. Per il resto è pressoché identica alla web app lanciata l’anno scorso

 
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Pubblicato da su 11 Maggio 2016 in news

 

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Niente bandiere, solo un cartello: attenzione

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In rete e sui social network non espongo bandiere o simboli, e non perché in questi giorni sarebbe necessario esporne troppi, ma semplicemente perché il pretesto della solidarietà manifesta maschera una tecnica di profilazione e di marketing a cui non mi interessa sottopormi. Al netto del fatto che – per quanto accade ogni giorno nel mondo – le bandiere da esporre sarebbero moltissime e c’è chi le propone tutte insieme (iniziativa simbolicamente lodevole, ma che a mio avviso si svuota di significato), decido io come, quando e perché modificare il mio profilo. Facendolo con un’applicazione che mi viene offerta ad hoc, cedo solo alla lusinga di un servizio chiavi in mano, che comunica molte cose:

  1. agli amici comunica probabilmente la mia indignazione e la mia vicinanza alle vittime, e in qualche modo una mia posizione ideologica, umana o di altra natura;
  2. a chi mi ha offerto quel servizio comunica tutt’altro, cioè che sono una persona che reagisce ai loro stimoli, e che posso essere influenzabile anche in altri ambiti e contesti (anche pubblicitari, sì);
  3. al resto del mondo veicola la visibilità del messaggio terroristico (già abbondantemente pubblicizzato da patinate riviste).

Tutti coloro che hanno modificato il proprio profilo con la bandiera francese strategicamente offerta da Facebook lo hanno fatto per esternare i propri sentimenti e io non mi permetto di discuterne l’intento, ne’ di criticarlo, anzi… ma è bene sapere che dietro c’è molto di più.

In rete c’è anche chi condivide inconsapevolmente bufale, titoli di giornale un po’ sciacalli, e chi condivide le stesse cose consapevolmente, per condannare chi le ha diffuse. Il risultato è che in ogni caso la voce dei loro autori si sparge e si amplifica. 
Fate attenzione, là fuori. Fate il vostro gioco, non quello degli altri.

 
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Pubblicato da su 18 novembre 2015 in news

 

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App precipitose

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Quando ho letto questa notizia diffusa dall’ANSA ho pensato che Am I Going Down, più che una app per prevedere gli incidenti aerei, potesse essere una bufala non controllata:

Basta inserire l’aeroporto e orario di partenza, quello di arrivo e l’aereo. Basando sui dati degli incidenti, viene calcolato il tasso di rischio per 10 milioni di voli di linea. Volando, per esempio, ogni giorno sulla tratta Francoforte – New York con un Aribus A380 il primo incidente si verificherebbe dopo 18.512 anni. A questo punto la paura sarà svanita.

Invece ho scoperto che l’app esiste veramente e può essere acquistata su iTunes.

Sicuramente, chi è costretto a prendere un aereo pur avendone paura, si precipiterà a scaricarla e sarà grato ad ANSA per la preziosa segnalazione.

 
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Pubblicato da su 4 febbraio 2015 in news

 

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Molte app, molto potere

Molte app, molto potere

Ieri sera pensavo all’insistenza di Facebook nell’invitare i propri utenti ad utilizzare Facebook Messenger sul proprio smartphone. Ok, la comunicazione diffusa non è esattamente un invito:

Ciao, Desideriamo informarti che i messaggi verranno spostati dall’applicazione Facebook a Messenger, la nostra applicazione gratuita e più veloce, che rappresenta uno strumento affidabile per scambiarsi i messaggi quotidianamente.

All’orizzonte, in un prossimo futuro – secondo Marco Valerio Principato – si intravede l’intento di avere un’unica app, frutto dell’unione di WhatsApp (già acquistato da Facebook) con Messenger, che si appoggi ai contatti memorizzati sullo smartphone per servizi di comunicazione scritta e parlata, chat (già possibili su entrambe le applicazioni) e telefonate su Internet (oggi consentite solo da FB Messenger). E’ uno scenario più che verosimile per quanto riguarda la sfera delle comunicazioni dirette: anziché mantenere attive due applicazioni con funzionalità pressoché identiche, è possibile – e forse preferibile – unire le risorse di entrambe in un’unica soluzione, più performante e in grado di raccogliere il controllo di un maggior numero di utenti e di contatti.

Intanto, sullo smartphone, gli utenti si ritroveranno due app “di Facebook”: quella per gestire il profilo del social network e quella per la comunicazione diretta a uno o più amici, scorporata dall’app principale. Probabilmente si tratta anche di una necessità tecnologica: concentrando tante funzioni in se’, l’app principale di Facebook può rivelarsi esosa in termini di risorse e su uno smartphone può avere qualche difficoltà a funzionare sempre in modo efficiente.

Meglio quindi suddividere il “lavoro” in più app, scelta che aiuta anche a creare una sorta di ecosistema, come sembra di capire da LinkedIn (con le sue sei app) e Foursquare, dal momento in cui ha creato lo spin-off Swarm. “Molte app, molto potere” si potrebbe dire, e noi sappiamo che il mondo di Facebook non finisce lì: recentemente è stata lanciata anche Slingshot (altra app per lo scambio di messaggicon foto e video che si pone in concorrenza con Snapchat, su cui Zuckerberg non è riuscito a mettere le mani) e non dimentichiamo che anche Instagram ormai fa parte della famiglia.

Mi fermo alle app di successo o attualmente più promettenti (dovrei aggiungere anche Paper, aggregatore di news che non mi sembra abbia sfondato, però c’è) e ipotizzo una strategia di proliferazione di app allo scopo di conquistare sempre più il controllo degli utenti attraverso i loro smartphone, per svolgere una sempre più articolata attività di raccolta dati e di profilazione a scopo di marketing e pubblicità, business irrinunciabile perché vitale, dato che tutti questi servizi sono “gratuiti”.

 
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Pubblicato da su 31 luglio 2014 in news

 

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Il Facebook-phone che non c’è, e forse non ci sarà

FacebookHome

Alla fine, il Facebook-phone, cioè il tanto atteso telefonino di Facebook, oggi non esiste: l’unica novità è l’anticipazione dello smartphone HTC First con Android, con una specifica interfaccia dedicata al social network chiamata Home, che sarà comunque utilizzabile su altri dispositivi dotati del sistema operativo firmato da Google.

Quindi, anche se tutto questo sarà disponibile dal 12 aprile, il Facebook-phone non esiste ancora. Esiste Facebook Home, che è in realtà un programma, ossia un progetto articolato che tecnicamente prevede una declinazione di Android appositamente customizzata e commercialmente serve a sviluppare partnership strategiche con produttori di dispositivi e operatori di telefonia mobile, che potrebbero indubbiamente avere interesse a collaborare con un social network che vanta oltre un miliardo di utenti. Questo orientamento di business induce a credere che un vero e proprio “telefonino di Facebook” non ci sarà nemmeno domani.

 
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Pubblicato da su 5 aprile 2013 in cellulari & smartphone, news, telefonia, TLC

 

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DeleteMe, un’app per la privacy

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Se siete molto attivi sul web e siete convinti – e ne avete ben donde – che la vostra privacy sia un valore e un diritto irrinunciabile, DeleteMe è l’app che fa per voi.

Foto, dati personali con indirizzi e numeri telefonici, orientamenti politici, religione, stato di salute sono dati utilissimi alle aziende che fanno data mining e text mining e a chi si occupa di profilazione degli utenti, soprattutto nel mondo dell’advertising, che sostiene tutte quelle attività accessibili gratuitamente su Internet.
 
DeleteMe va installata e alimentata con i dati personali dell’utente. Sarà l’app (al momento disponibile solo per iPhone e iPad) ad effettuare una scansione del web per trovare le pagine che li contengono e proporle, in un elenco, allo stesso utente, che potrà selezionare i siti web da cui vorrà essere cancellato. Sarà lo staff di Abine (l’azienda che ha realizzato l’app) ad occuparsi degli aspetti burocratici (la prima volta il servizio è a costo zero, eventuali richieste successive saranno fatturate).

 
Commenti disabilitati su DeleteMe, un’app per la privacy

Pubblicato da su 21 gennaio 2013 in Buono a sapersi, cellulari & smartphone, Internet, tablet, tecnologia

 

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