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Operazione POISON, su cosa è necessario riflettere

Sette minori denunciati, ventidue con una posizione ancora da accertare: sono questi alcuni dei numeri che rendono impressionante quanto emerge dall’operazione “POISON” condotta dalla Polizia di Stato sulla detenzione e diffusione di materiale pedopornografico tramite social e app di messaggistica. Un contesto dalle proporzioni enormi che richiede una serie di attente riflessioni.

Le indagini hanno preso il via in seguito a una segnalazione del Servizio Emergenza Infanzia 114 riguardo alla condivisione, da parte di adolescenti, di materiale multimediale su abusi su minori (anche bambini), corpi mutilati, inneggiamenti a fascismo e nazismo, episodi di violenza estrema e altre immagini dai contenuti raccapriccianti, diventate virali come comuni video di intrattenimento. In una chat di gruppo in cui sono stati trovati questi contenuti erano presenti 700 ragazzi, una vera e propria comunità paragonabile ad un piccolo paese, ma non si tratta dell’unico gruppo: nell’indagine sono stati analizzati oltre 85.000 messaggi scambiati tra minori all’interno di cinque diversi gruppi.

I sette denunciati hanno un’età tra i 13 e i 15 anni. Gli altri ventidue, spiega il comunicato della Polizia, “si sono limitati all’invio dei ‘Meme’ “, ma la loro posizione è ancora da definire “per possibili provvedimenti a protezione degli stessi, atteso il disvalore culturale ed educativo emerso, anche con l’intervento dei servizi sociali a sostegno dei ragazzi e delle loro famiglie”.

La vicenda ha acceso i riflettori su un quadro preoccupante, che denota l’indifferenza e la superficialità con cui certi argomenti vengono trattati tra ragazzi. La banalizzazione di queste tematiche è impressionante e colpisce la considerazione fatta dagli inquirenti: “a volte si assiste ad una gara a chi posta l’immagine più sprezzante o truculenta, al fine di stupire, all’insegna dell’esagerazione”.

Ovviamente non è sufficiente bloccare la diffusione di queste immagini. Certo, fermare il fenomeno è necessario a non diffondere ulteriormente odio e violenza, ma è fondamentale agire affinché i ragazzi acquisiscano una maggiore consapevolezza dell’importanza di questi argomenti che non possono e non devono essere banalizzati. Mai.

Fatto ancor più critico, non deve esistere la possibilità di ridurli a divertimento o a motivo di scherno. In questo contesto entra però in gioco il ruolo dei genitori, che deve essere educativo, ma anche vigile: l’uso di dispositivi come smartphone, tablet e computer deve essere responsabile ed è indispensabile essere il più possibile a fianco dei minori, che rischiano di essere lasciati soli, isolati in una sfera virtuale senza il rispetto di regole fondamentali nel rapporto con se stessi e con le altre persone.

Perché la vicinanza, oltre ad essere educativa, deve essere anche vigile? In primo luogo perché studi autorevoli – in ambito psicologico e sociologico – hanno evidenziato che coloro che si mettono nei guai con lo smartphone hanno problemi e disagi pregressi, quindi il dispositivo elettronico non è l’occasione, bensì uno degli strumenti con cui manifestano frustrazione e malessere; secondariamente è basilare considerare che i responsabili delle azioni commesse dai minori sono i genitori e chi esercita la patria potestà, che sono i soggetti destinatari di eventuali ripercussioni legali.

Uno smartphone non è solo un computer in miniatura: rappresenta la porta di ingresso verso un vero e proprio mondo parallelo in cui nessuno deve essere lasciato solo. Se non ce ne interessiamo, non ne sapremo nulla, non ne capiremo le dinamiche e non avremo la possibilità di fermarne le derive pericolose.

 
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Pubblicato da su 26 ottobre 2022 in news

 

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Instagram saprà la tua età guardandoti in faccia

Per un social network è importantissimo conoscere l’età dei propri utenti, sia per questioni legali (in Italia agli under 14 non è possibile aprire un profilo social) che per presentare agli utenti contenuti appropriati. Come sappiamo, fidarsi dai dati dichiarati all’iscrizione non è sufficiente e per questo motivo Instagram, per capire l’età dei propri utenti, ha annunciato che tenterà la carta del riconoscimento facciale.

Meta, il gruppo di cui Instagram fa parte insieme a Facebook, WhatsApp e altri servizi, potrebbe sicuramente investire in questa tecnologia e non è detto che non lo stia facendo. Per il momento ha preferito appoggiarsi a Yoti, azienda specializzata nel settore, che fornirà una soluzione di intelligenza artificiale con questo obiettivo. La funzione verrà impiegata inizialmente per gli utenti USA e poi verrà verosimilmente estesa al resto del mondo, e questa potrebbe essere la prima fase dell’introduzione di questa tecnologia anche sulle altre piattaforme social, in aggiunta ai sistemi di verifica già utilizzati, come il caricamento della carta di identità – che sappiamo non essere un sistema del tutto affidabile – e la richiesta di un “aiuto da casa”, altrimenti conosciuto come social vouching (la conferma dell’età da parte di tre follower maggiorenni dell’utente).

Chi volesse fare un test e verificarne l’affidabilità, può cliccare questo link: https://yoti.world/age-scan/. Come vedete nell’immagine che apre il post, con me è stato di manica larga 😆

The Verge riporta che le stime di Yoti sono meno accurate per utenti con carnagione scura, di sesso femminile e di età inferiore ai 24 anni, mentre Engadget alza il sopracciglio perché non ci sono informazioni sulla tecnologia utilizzata.

Riuscirà Meta ad impedire ai minorenni di accedere a contenuti per per adulti o servizi come Facebook Dating? Dite di sì? Anche quando davanti alla webcam metteranno la foto del nonno, ignaro di tutto?

 
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Pubblicato da su 28 giugno 2022 in news, social network

 

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TikTok: controlli (formali) maggiori sui minori

TikTok informa sull’accordo con il Garante della Privacy: dal 9 febbraio gli utenti italiani saranno chiamati ad aggiornare le informazioni personali del proprio profilo, confermando la propria data di nascita. Saranno sospesi gli account che dichiareranno un’età inferiore ai 13 anni:

TikTok è un’app riservata a persone di età pari o superiore a 13 anni e abbiamo già una serie di misure in atto per rilevare e rimuovere utenti di età inferiore ai 13 anni. Dal 9 febbraio, attraverso un aggiornamento della nostra app, faremo passare nuovamente ogni utente in Italia attraverso il nostro processo di verifica dell’età. Solo gli utenti di età pari o superiore a 13 anni potranno continuare a utilizzare l’app dopo aver eseguito questo processo. Gli utenti che hanno più di 13 anni ma che, per errore, potrebbero immettere accidentalmente un’età sbagliata, potranno presentare ricorso mentre il loro account rimane sospeso.

L’aggiornamento – non apportato ai requisiti di iscrizione, già definiti in tal senso, ma alla app – arriva in seguito ad una tragedia collegata all’utilizzo di TikTok che ha riportato d’attualità il tema dell’utilizzo di Internet e social network da parte dei minori, e della necessità di controlli adeguati sugli utenti che vi si iscrivono.

Basterà? Le dinamiche di controllo descritte da TikTok non sono realmente nulla di eccezionale: certo, prima non esistevano, ma non essendo nemmeno impossibili da aggirare, di fatto sono un “bastoncino tra le ruote” che rende ancor più intenzionale l’eventuale mancanza di rispetto delle regole sull’età minima degli iscritti. E’ come usare un lucchettino per chiudere un armadietto: forzarlo può essere un gioco da ragazzi, ma richiede volontarietà, perché rende impossibile un accesso inconsapevole e questo offre al social network la possibilità di dimostrare di aver adottato una soluzione per prevenirne l’utilizzo indebito.

A questa soluzione si potrebbe aggiungere quanto accennato in una nota dal Garante:

Per identificare con ragionevole certezza gli utenti sotto i 13 anni successivamente a questa prima verifica, la società si è impegnata a valutare ulteriormente l’uso di intelligenza artificiale.

La risposta a quel “basterà?” rimane “no”, poiché anche in questo contesto si parla di tecniche aggirabili e il motivo è molto semplice: non è raro che i minori utilizzino account aperti da figure più adulte in famiglia, come genitori o sorelle/fratelli maggiori. Per questo motivo, la campagna di sensibilizzazione che TikTok ha promesso di aprire a beneficio di genitori e figli è necessaria soprattutto per genitori e tutori: è compito loro – nostro – applicare i principi di responsabilità e consapevolezza su questi aspetti, delicati e rilevanti allo stesso tempo. Come dicevo in un precedente post su questo argomento: gli unici a fare davvero la differenza siamo noi.

 
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Pubblicato da su 4 febbraio 2021 in news

 

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Internet e minori: l’età minima aiuta, ma non basta

La notizia drammatica della morte di una bambina per una sfida su TikTok, una delle tante challenge diffuse tramite social network, riporta l’attenzione pubblica sull’utilizzo di smartphone e tablet connessi a Internet da parte di minori e si assiste a richieste di introdurre per legge un’età minima per poterne usufruire, ma è bene premettere un dato di fatto: esiste già. E già da questo capiamo che non è una soluzione sufficiente.

L’età minima è stata stabilita per i servizi della “società dell’informazione” (connessione Internet, social network, servizi di messaggistica, eccetera): il Regolamento Europeo sulla Protezione dei Dati Personali (GDPR) indica 16 anni, lasciando però facoltà agli Stati UE di abbassare il vincolo di età (comunque mai al di sotto dei 13 anni). Avvalendosi di questa facoltà, l’Italia ha fissato l’età minima a 14 anni. In ogni caso, dai 13 anni l’iscrizione non è vietata, ma deve essere subordinata al consenso di genitori o tutori, chiamati ad esercitare una necessaria supervisione, oltre che a rispondere di eventuali condotte non adeguate. C’è anche un età minima per avere un’utenza cellulare, che è 8 anni, ma anche per questo serve il consenso di genitori e tutori che se ne assumono la responsabilità, dal momento che l’art.97 del Codice Penale stabilisce che “non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni”.

Quindi, ricapitolando: a 8 anni è possibile disporre di un telefono cellulare, utilizzabile per le telefonate. Dai 13 anni, con consenso dei genitori, è possibile accedere a servizi Internet, a cui è possibile iscriversi liberamente dal compimento dei 14 anni. Queste sono le regole che vengono evidentemente ignorate, come vengono aggirati i termini di utilizzo definiti dalle aziende che gestiscono i servizi, quando un bambino di 12 anni (o meno) è dotato di smartphone di ultima generazione con connessione Internet e iscrizione ai social network, effettuata dichiarando un’età non veritiera. E’ sicuramente possibile introdurre ulteriori “paletti” a livello tecnologico per rafforzare i meccanismi di controllo dell’età, onde evitare che un social network pensato per adolescenti o adulti sia accessibile ai bambini ed è auspicabile che le aziende del settore si muovano in questa direzione, ma anche questa non sarà mai una soluzione definitiva, perché la tecnologia non può risolvere tutto: applicazioni di controllo come Family Link possono essere di ulteriore aiuto, ma gli unici a fare davvero la differenza siamo noi.

Ciò che va considerato e messo in primissimo piano è la necessità di essere il più possibile a fianco dei minori per non far mai mancare quella vicinanza e quel supporto che permettono, con il tempo, di maturare la consapevolezza delle proprie azioni e dei rischi a cui possono andare incontro isolandosi in una sfera virtuale, in cui sono soli anche nell’illusione di mantenere un contatto (superficiale) con tantissime persone. Affidare uno smartphone o un tablet a un figlio deve essere una scelta consapevole di tutto ciò che questa responsabilità comporta e non può essere limitata alla spinta del confronto sociale trasmesso dal “ce l’hanno anche gli altri”, men che meno dalla presunta necessità di dargli uno strumento di intrattenimento per “tenerlo tranquillo”. Sicuramente è più semplice dirlo che concretizzarlo, ma non bisogna mai demordere.

 
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Pubblicato da su 22 gennaio 2021 in news

 

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Perché il filtro automatico ai contenuti “hot” non può funzionare

Un articolo contenuto nel testo del Decreto Giustizia approvato in via definitiva alla Camera contiene una norma – originata da un emendamento firmato dal senatore Simone Pillon – che prevede l’applicazione di un blocco automatico sui contenuti pornografici. L’obiettivo può essere condivisibile, tuttavia, facendo un confronto tra la presentazione di questa norma e il suo testo effettivo, tecnicamente le differenze sono notevoli. La dichiarazione del senatore Pillon, riportata da più fonti, va in una direzione precisa e parla dell’installazione del filtro sui dispositivi:

“È stata accolta (una volta ogni tanto la maggioranza ci ascolta) la mia proposta, che rappresenta la cosa che mi sta più a cuore: l’introduzione dell’obbligo per i fornitori di telefonini, tablet, laptop, tv e altri device di preinstallare gratuitamente sugli apparati un filtro per bloccare contenuti violenti, pornografici o inadeguati per i minori”

Il testo approvato, invece, non coinvolge i fornitori dei dispositivi, bensì gli operatori di telefonia, cioè chi fornisce il servizio di connettività:

Articolo 7-bis. (Sistemi di protezione dei minori dai rischi del cyberspazio)

1. I contratti di fornitura nei servizi di comunicazione elettronica disciplinati dal codice di cui al decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, devono prevedere tra i servizi preattivati sistemi di controllo parentale ovvero di filtro di contenuti inappropriati per i minori e di blocco di contenuti riservati ad un pubblico di età superiore agli anni diciotto.

2. I servizi preattivati di cui al comma 1 sono gratuiti e disattivabili solo su richiesta del consumatore, titolare del contratto.

3. Gli operatori di telefonia, di reti televisive e di comunicazioni elettroniche assicurano adeguate forme di pubblicità dei servizi preattivati di cui al comma 1 in modo da assicurare che i consumatori possano compiere scelte informate.

4. In caso di violazione degli obblighi di cui al presente articolo, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ordina all’operatore la cessazione della condotta e la restituzione delle eventuali somme ingiustificatamente addebitate agli utenti, indicando in ogni caso un termine non inferiore a sessanta giorni entro cui adempiere.

Da qualunque parte la si guardi, la norma così approvata rischia di essere più nociva che benefica, perché mette in difficoltà i fornitori di connettività: chi si vedrà impossibilitato ad applicare il filtro stabilito sarà etichettabile come fuorilegge, mentre chi ci proverà andrà incontro a problemi di discrezionalità e di censura (chi stabilisce se un contenuto deve essere bloccato, e con quali criteri oggettivi?). Ed è proprio per questo motivo che, nel Regno Unito, un’iniziativa analoga si è bloccata.

Il problema non è affatto banale: se la norma avesse davvero previsto l’installazione di un software sui dispositivi, come dichiarato dal senatore Pillon, il controllo sui contenuti sarebbe stato attuabile indipendentemente dal tipo di programma utilizzato. L’utente avrebbe potuto utilizzare TikTok, Facebook, Twitter, WhatsApp, il browser per navigare in Internet o qualunque altra soluzione, e il “filtro” avrebbe impedito l’accesso ai contenuti indicati come “vietati ai minori”.

La norma invece stabilisce che il “controllo parentale” sia applicato da chi fornisce la connettività ed è qui che si apre la questione: è molto difficile che un fornitore di connettività possa bloccare l’accesso a un contenuto “proibito”, perché dovrebbe analizzare tutto il traffico Internet che deriva dalla navigazione di un utente, ma dal momento che questa avviene su connessioni cifrate – ormai per quasi tutti i siti web – il provider non può sapere a quali contenuti l’utente sta accedendo.

Sicuramente può essere semplice bloccare totalmente l’accesso a un portale web dedicato ai contenuti pornografici (si può fare via DNS, soluzione comunque aggirabile, anche se non per tutti), ma è molto meno agevole farlo su piattaforme come i social network, per non parlare di sistemi di messaggistica come WhatsApp.

Per la serie “fatta la legge, trovato l’inganno”, ovviamente sappiamo che è possibile anche bypassare il problema di un blocco totale su un sito web utilizzando una VPN, cioè una connessione cifrata. Esistono soluzioni standard, ma anche soluzioni dedicate (c’è già chi ha pensato di offrire gratuitamente ai propri utenti un servizio VPN dedicato).

L’impressione è che – anche in questo caso – una norma che prevede presupposti tecnici sia stata pensata senza il supporto tecnico di professionisti competenti in materia.

 
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Pubblicato da su 26 giugno 2020 in news

 

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Bullismo e cyberbullismo, due facce della stessa medaglia (violenta)

Se bullismo e cyberbullismo sono le minacce che un adolescente su tre teme di più dopo violenze sessuali e droga, è evidente come la tematica non meriti di essere sottovalutata, né derubricata con la falsa rassicurazione “a me non succede”. Anche perché i dati presentati dall’Osservatorio Indifesa meritano una lettura attenta:

Il cyberbullismo è una forma di bullismo, si tratta sempre di un comportamento violento di prevaricazione, oppressivo e offensivo, messo in atto con strumenti tecnologici (messaggi, social network). In questa rilevazione, le due forme di bullismo insieme raggiungono il 30,97%. Nello stesso “sondaggio”, è un valore comparabile a quello del timore di essere vittime di violenza sessuale. Da questi dati emerge quindi che due adolescenti su tre temono di essere vittime di una forma di violenza, di tipo fisico o verbale, e che nel cyberbullismo possono avere declinazioni più subdole.

Dedicare una giornata – domani, 7 febbraio –  a bullismo e cyberbullismo a scuola (che ne è il teatro principale, ma non esclusivo) può essere di aiuto a sensibilizzare sul problema. Ovviamente, come in qualunque altro contesto, l’attenzione non deve cadere al termine della giornata, ma deve essere mantenuta costante, perché la percezione del problema non è immediata e perché – nel caso del cyberbullismo – c’è scarsa consapevolezza e comprensione dell’impatto che può avere.

Con un sistema di messaggistica e i social si fa presto a minare la reputazione di una persona e, spesso, la soluzione per chi rischia di essere vittima consiste nel capire come gestire la situazione. Gestirla con ironia e contrastare gli attacchi con garbo e gentilezza è spesso la strategia vincente, ma tutto questo ovviamente non è facile, soprattutto per coloro che – per proprio carattere –  non riescono a reagire.

Per questo motivo ad un adolescente non deve mancare il supporto della famiglia. Il dialogo tra genitori e figli non deve mai mancare e gli adulti devono poter sapere ciò che avviene sui dispositivi dei propri figli, non esercitando una mera forma di controllo, ma educando i giovani a sentirsi liberi di condividere in modo consapevole queste informazioni. Il proibizionismo non è mai efficace quanto la condivisione e la consapevolezza.

 
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Pubblicato da su 6 febbraio 2020 in cellulari & smartphone, news

 

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WhatsApp “vietato ai minori di 16 anni”, l’ultimo dei vostri problemi

A chi avesse appena appreso con sconforto che WhatsApp nell’Unione Europea sarà “vietato” ai minori di 16 anni, ricordo quanto già indicato dal sottoscritto lo scorso gennaio: al netto della possibilità, da parte dei genitori, di autorizzare il proprio figlio ad utilizzarlo (purché abbia almeno 13 anni), il problema di fondo non è la possibilità di usare o non usare lecitamente l’applicazione (che comunque non chiede l’età a nessun utente all’atto dell’iscrizione), ma la consapevolezza – spesso non piena – di ciò che significa utilizzare questo tipo di servizi:

Quindi, laddove non arrivasse il buon senso – quel buon senso che dovrebbe spingere ogni genitore alla consapevolezza di ciò che fanno i figli di cui sono responsabili – arriva una legge per ricordare ai genitori di interessarsi e occuparsi responsabilmente anche dell’attività svolta online dai propri figli (dal momento che ciò che fanno offline, cioè nel cosiddetto “mondo reale”, è oggettivamente e indiscutibilmente di loro interesse e responsabilità).

A questo proposito può inoltre risultare interessante leggere il parere espresso in merito dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adoloscenza, relativo ad ogni tipo di servizio online, presentato con queste parole:

“Non è opportuno abbassare la soglia dei 16 anni prevista dal Regolamento” osserva la Garante Filomena Albano. “I diritti di ascolto, partecipazione, espressione e quello di essere parte della vita culturale e artistica del Paese previsti dalla Convenzione internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza devono dar vita a una ‘partecipazione leggera’ dei minorenni. In altre parole, non gravata da pesi e responsabilità che competono, da una parte, a chi esercita la responsabilità genitoriale e, dall’altra, ai contesti educativi e istituzionali nei quali sono inseriti i ragazzi”.

Naturalmente questo ragionevole principio va in contrasto con la possibilità – ipotizzata lo scorso settembre – di introdurre a scuola l’utilizzo dello smartphone da parte degli studenti, a mio avviso possibile solo dopo un percorso che passa dal conseguimento di altri obiettivi fondamentali. Riassumendo in breve quanto considerato a suo tempo parlavo di infrastrutture pronte, insegnanti preparati e un ambiente familiare consapevole.

Lo stesso Garante motiva la sua condivisibile cautela con la scarsa consapevolezza digitale:

 “Ad oggi, in Italia – osserva l’Autorità garante – non si registra una diffusione capillare di programmi educativi tarati specificatamente sulla ‘consapevolezza digitale’. Serve che le agenzie educative e le istituzioni predispongano e attuino un programma in tal senso, accompagnato da uno studio sulla necessaria consapevolezza digitale da parte delle persone di minore età. In assenza non è possibile immaginare una soglia per il consenso autonomo dei minorenni più bassa di quella stabilita a 16 anni a livello europeo”.  I 16 anni, d’altra parte, rappresentano già nell’ordinamento giuridico italiano un’età di passaggio verso la maturità per altre situazioni giuridicamente rilevanti.

E proprio nel contesto delle situazioni giuridicamente rilevanti andrebbe inquadrata una frase dei termini di utilizzo di WhatsApp, che nell’immagine qui riportata si trova all’ultimo paragrafo e che traduco:

Oltre ad avere l’età minima richiesta per utilizzare i nostri Servizi in conformità alla legge applicabile, se non hai un’età sufficiente da avere l’autorità per accettare i nostri Termini nel tuo Paese, il tuo genitore o tutore deve accettare i nostri Termini a tuo nome.

Un servizio che non richiede pagamento da parte dell’utente non perde le sue caratteristiche formali, quindi accettarne i termini di utilizzo significa accettare le condizioni di un contratto a titolo gratuito. Per un cittadino italiano, il contratto è definito dall’art.1321 del Codice Civile e la sua accettazione è, a tutti gli effetti, un’azione legata a quella capacità di compiere atti che – come dice l’art. 2 del Codice Civile – ha come presupposto la maggiore età.

Pensiamoci.

 
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Pubblicato da su 26 aprile 2018 in news

 

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Minori, Internet e privacy cum grano salis

Nell’era delle illusorie e superficiali convinzioni che su Internet “tutto è accessibile, libero e gratuito” e chi non ha nulla da nascondere “può pubblicare ciò che gli pare”, in vista della prossima entrata in vigore del GDPR – il nuovo Regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali –  è opportuno fare chiarezza su alcuni aspetti, in primo luogo per comprendere che in questo ambito esistono diritti e doveri per tutti: pensare infatti che la questione “privacy” riguardi solamente i doveri delle aziende che trattano dati e i diritti degli utenti, senza pensare che anche per questi ultimi esistano dei doveri, significa avere una visione limitata dell’argomento, soprattutto in un contesto di utilizzo di servizi Internet da parte degli utenti di minore età, con particolare riguardo a social network, servizi di messaggistica e di condivisione di contenuti.

Le condizioni di servizio di molte piattaforme (cito ad esempio non esaustivo Facebook, Snapchat, Instagram, WhatsApp, Youtube, Ask.fm, Musical.ly) attualmente permettono l’iscrizione a minori con età di almeno 13 anni, che nel caso di Musical.ly devono comunque essere autorizzati da un genitore o tutore. Fa eccezione al momento ThisCrush, che prevede un’età minima di 18 anni (in caso di età inferiore, l’account deve essere creato e supervisionato dal genitore/tutore). Il limite dei 13 anni deriva dall’origine di questi servizi, nati prevalentemente negli USA, in cui vige il “COPPA” (Children’s Online Privacy Protection Act), una legge federale che vieta alle aziende private la raccolta di dati e informazioni personali a persone di età inferiore ai 13 anni e impone il consenso all’utilizzo di un servizio da parte di chi esercita la patria potestà.

Perché inizialmente ho citato il nuovo Regolamento Europeo? Perché in questo contesto la nuova norma – che entrerà in vigore il 25 maggio 2018, quindi tra quattro mesi – prevede un principio molto chiaro che consiste nell’età di 16 anni come limite minimo per l’iscrizione a servizi offerti dalla società dell’informazione, vale a dire social network e servizi di messaggistica, a meno che genitori o tutori non manifestino il consenso all’iscrizione di soggetti di età minore (ma comunque non inferiore ai 13 anni). Quindi, laddove non arrivasse il buon senso – quel buon senso che dovrebbe spingere ogni genitore alla consapevolezza di ciò che fanno i figli di cui sono responsabili – arriva una legge per ricordare ai genitori di interessarsi e occuparsi responsabilmente anche dell’attività svolta online dai propri figli (dal momento che ciò che fanno offline, cioè nel cosiddetto “mondo reale”, è oggettivamente e indiscutibilmente di loro interesse e responsabilità).

Il nuovo Regolamento lascia facoltà agli Stati UE di abbassare il vincolo di età (anche in questo caso comunque non sotto i 13 anni). In assenza di provvedimenti specifici da parte dei singoli Stati, per gli utenti tra i 13 e i 16 anni di età l’iscrizione a social network e servizi di messaggistica dovrà dunque essere subordinata al consenso di genitori o tutori, che saranno quindi chiamati non solo ad esercitare una ragionevole supervisione, ma anche a rispondere di eventuali condotte non adeguate, un’attenzione quantomai opportuna in un’epoca caratterizzata da fenomeni come il cyberbullismo (variante online del bullismo, ma da deprecare senza attenuanti, avendo anzi l’aggravante della possibilità, per il bullo, di agire dietro uno schermo e non de visu), che saranno gestiti dal Garante della Privacy a cui potranno pervenire segnalazioni dirette, come stabilito dalla legge 71/2017, in cui sono inoltre previste misure di prevenzione ed educazione nelle scuole.

Non va inoltre dimenticato che i minori, talvolta, devono essere tutelati anche dalle azioni compiute dagli stessi genitori, quando ad esempio pubblicano sui social network certe loro immagini (magari in situazioni o pose imbarazzanti) o scrivono in modo esageratamente dettagliato racconti di episodi o avvenimenti famigliari, generando delle vere e proprie interferenze nella loro vita privata. Da alcune foto si possono ottenere dati personali e sensibili: nomi, indirizzi, abitudini, hobby e altre informazioni che possono rendere rintracciabili i soggetti ritratti. Spesso si tratta di superficialità e sottovalutazione di un problema che può avere risvolti ampiamente inaspettati. Sto parlando naturalmente di chi pubblica contenuti senza alcun tipo di precauzione nella scelta di cosa condividere o nei confronti del pubblico che potrebbe vederle, abitudine che può derivare da moti di vanità e orgoglio che in molti casi sarebbe opportuno reprimere: i rischi vanno dall’utilizzo indebito delle immagini altrui (con derive sgradevoli) fino al grooming (l’adescamento effettuato su Internet). E non si tratta certo di un’esagerazione, ne’ di una questione di lana caprina, se un giudice è arrivato al punto di stabilire la necessità del consenso di entrambi i genitori in casi come questo, in cui sono state rilevate violazioni a numerose leggi (art. 10 del Codice Civile, artt 4,7,8 e 145 del Codice della Privacy, gli artt. 1 e 16, I comma, della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, che l’Italia ha ratificato con la Legge 176/1991).

La consapevolezza delle possibili conseguenze e implicazioni delle azioni compiute da genitori e figli (in rete e fuori) non deve mai mancare.

 

 
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Pubblicato da su 25 gennaio 2018 in news, privacy

 

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Violata una chat segreta, le foto in rete. “Opera di hacker”? Ma de che?

Sarebbe ora che lo smartphone venisse utilizzato con consapevolezza dagli utenti di tutte le età:

Protagoniste e vittime sono una sessantina di liceali di Modena e Reggio Emilia, come racconta Qn/Il Resto del Carlino. La vicenda nasce in estate quando le minorenni decidono di creare con l’App per smartphone un contenitore segreto di immagini, dove si ritraggono nude. Ma il contenuto della chat “segreta” ha cominciato a circolare nei giorni scorsi tra i liceali modenesi. Le 60 protagoniste hanno scoperto che tutto il materiale, foto e video, era finito sul web. Hanno puntato il dito contro il fidanzato di una, il quale ha ammesso di aver scaricato le immagini, salvandole sul pc, ma giurando di non averle mai messe in rete, dando la colpa all’opera di hacker.

Al di là della non ottima idea di utilizzare – come “contenitore segreto” – una chat su WhatsApp in un contesto allargato ad una sessantina di ragazze, il primo aspetto di cui è fondamentale essere consapevoli è che è sempre la persona – e non la tecnologia – ad avere la responsabilità di fatti come quello descritto. In questa vicenda – stando a quanto si legge sul Resto del Carlino – all’estrema superficialità e leggerezza con cui le dirette interessate hanno trattato la propria immagine e le proprie immagini (dati personali e sensibili, in quanto intimi), si aggiunge il tradimento dell’implicito patto di segretezza da parte di qualcuno che ha pensato bene di raccogliere e catalogare le immagini, per poi agevolarne (forse inconsapevolmente) la diffusione via Internet. Dare la colpa “all’opera di hacker” è un puerile e patetico tentativo di mascherare superficialità e mancanza di rispetto (per non parlare di altre ben più ponderose questioni, legate alla conservazione abusiva di quelle che qui chiameremo “immagini intime” di sessanta liceali, ma che in altri ambienti, a seconda dell’età del soggetto ritratto, prendono il nome di “foto pedopornografiche”).

Nel paragrafo precedente ho scritto due volte “superficialità”, una volta “leggerezza” e “mancanza di rispetto”. Sono elementi ricorrenti in fenomeni come questo, che nascono piccoli e presto diventano più grandi dei loro protagonisti e ci devono far riflettere sul rapporto tra giovani e nuove tecnologie, o meglio sull’enorme necessità di alfabetizzazione digitale dei nostri ragazzi, che sono espertissimi nell’uso delle funzionalità offerte da Internet, smartphone e altri dispositivi digitali, ma ignorano completamente ogni aspetto di rischio conseguente alle loro azioni. Esiste inoltre un altro aspetto di cui c’è scarsissima consapevolezza: uno smartphone è legato ad un’utenza telefonica e una sim card può essere intestata anche ad un minore, ma genitori e tutori devono sapere che uso si fa di quell’utenza telefonica, perché il titolare è il minore di cui sono responsabili, pertanto i ragazzi non possono rivendicare alcun diritto alla privacy nei loro confronti.

A corollario di tutto quanto detto sopra: in rete e nel mondo esistono molti pedofili e pazzi. Non è la loro esistenza a doverci far desistere dal compiere certe azioni (come condividere foto intime in un gruppo di WhatsApp): ancor prima dovremmo ascoltare la voce del nostro cervello, quando ci chiede “Ehi aspetta, a cosa ca**o ti serve che tu condivida quel tipo di foto su WhatsApp?”. Per rimettersi in bolla basterebbe dare il giusto peso alla risposta. Poi, liberi tutti di fare tutto ciò che si vuole, ci mancherebbe solo che qualcuno si senta inibito a fare ciò che davvero ritiene importante. Ma solo con tutta la dovuta consapevolezza.

 
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Pubblicato da su 8 novembre 2017 in cellulari & smartphone

 

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Quando vi dicono che è colpa di Internet…

itscomplicated[1]

Quando qualcuno indica in Internet e nei social network la causa principale di tematiche serie che riguardano i ragazzi, come bullismo e cyberbullismo, hate speech (i cosiddetti discorsi d’odio con cui si manifesta intolleranza e odio verso una persona o un gruppo sociale in base a razza, etnia, religione, l’orientamento sessuale o quello politico, identità di genere o altre particolari condizioni fisiche o sociali) e altre problematiche, suggeritegli la lettura del libro It’s complicated di Danah Boyd (potete acquistarlo, o scaricarlo dal sito danah.org), che documenta una ricerca lunghissima (iniziata nel 2005 e conclusa nel 2012) sulle vite connesse di molti ragazzi e le spiega agli adulti.

Il titolo è perfetto: It’ complicated, è complicato, perché affrontare queste problematiche non è affatto semplice e individuare il colpevole in uno strumento tecnologico è facile. Ed è sbagliato. Perché una tecnologia non intacca problematiche sociali e culturali.

 
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Pubblicato da su 28 febbraio 2014 in Internet, ricerche

 

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