Debutta negli Stati Uniti la Google Wallet Card, cioè la declinazione fisica di Google Wallet, il portafoglio elettronico del webcolosso di Mountain View.
Con Google Wallet oggi è già possibile fare acquisti attraverso un’apposita app per smartphone. La Google Wallet Card estende il sistema con una carta di debito prepagata, che potrà essere utilizzata per prelevare contanti agli sportelli ATM, esattamente come una carta bancomat, e pagare gli acquisti nei punti vendita legati al circuito MasterCard.
Quali sono i requisiti per averne una? Oltre a quello territoriale (al momento è disponibile solo negli USA), è necessario avere un account Google
Questa novità serve a Google per conseguire un obiettivo strategico: fare da propulsore al servizio Google Wallet (che ad oggi conta un numero di iscritti sotto le aspettative), per allargarne il mercato ed ampliare le proprie possibilità di profilazione degli utenti, che utilizzando il servizio alimenteranno un ricco database con tutte le informazioni relative alle transazioni effettuate (nome acquirente, nome venditore, oggetto acquistato, valore della spesa), che porterà l’azienda a raffinare ulteriormente la propria mira nelle attività di raccolta pubblicitaria.
E’ online Helpouts, pensata da Google come punto di incontro tra utenti che necessitano di aiuto o informazioni ed esperti in grado di dare loro una risposta. Otto le categorie oggi disponibili e che, verosimilmente, aumenteranno in futuro: arte e musica, computer & elettronica, cucina, formazione scolastica e professionale, moda e bellezza, fitness e alimentazione, salute, fai da te (casa e giardinaggio).
Accessibile a chi ha un account Google+, il servizio è a pagamento. L’utente – prima di usufruire di una consulenza – può esaminare le recensioni di altri e sfruttare l’opzione soddisfatto o rimborsato, entro tre giorni dall’utilizzo del servizio.
Secondo il Wall Street Journal si tratta di un’estensione di Google che consente di ottenere risposte che un motore di ricerca non può dare in modo esaustivo.
Personalmente sono scettico sulle prospettive di successo di questo progetto, ma non mi dispiacerà essere smentito in caso contrario. L’unico pregiudizio che ho in proposito riguarda il fatto che – come per le attività di ricerca svolte con Google, e di navigazione con il browser Chrome – Helpouts possa rappresentare un ennesimo raccoglitore di informazioni sugli utenti, da utilizzare a scopo di profilazione, pubblicità comportamentale e via discorrendo.
Siete utenti di Google Plus? Avete ricevuto l’entusiasmante notizia sulla possibilità di avere l’URL personalizzato per il vostro account? Avete letto i termini di utilizzo di questa novità? Soprattutto sulla sua insindacabile precarietà e sul fatto che oggi è a costo zero, ma un giorno potrebbe diventare a pagamento?
Ora che Eric Schmidt – presidente del consiglio di amministrazione di Google – ha detto«Google investirà in Italia per sostenere le eccellenze del Paese, ma il Governo dovrà garantire la banda larga veloce ovunque, nulla può accadere senza questo», mi aspetto che il digital divide che colpisce le nostre infrastrutture di telecomunicazioni sia estinto entro il prossimo Natale. Almeno, a suon di dichiarazioni provenienti da ogni direzione, sia economica che politica.
Due considerazioni su questa dichiarazione:
all’Italia serve l’esortazione di Google per trovare motivazioni per promuovere la banda larga? Non ci basta la consapevolezza che una rete veloce e capillarmente disponibile offre un contributo irrinunciabile alla ripresa e alla crescita?
solo io vi leggo la localizzazione italiana di un promo per l’iniziativa A4AI, che ha il nobile obiettivo dichiarato di abbattere il digital divide nel mondo?
Se intervistassimo persone di questo pubblico, direbbero che Google Android non è la loro piattaforma principale […] Quando si parla di Android, la gente dice “aspetta un minuto, Android non è sicuro”
Utilizzate Google Talk (sistema di comunicazione VoIP e Instant Messaging confluito in Google+ Hangouts)? Fate attenzione: alcuni utenti riferiscono infatti che la piattaforma recapita messaggi a destinatari errati. Il problema sembra colpire proprio gli utenti che non hanno fatto l’upgrade a Hangouts (non è una giustificazione, ma solo la spiegazione di un possibile effetto collaterale). Per risolvere il problema, comunque, lo staff tecnico di Google dichiara di essere già all’opera.
Il Google Play Store ha aperto sulla localizzazione italiana la sezione Dispositivi, in cui al momento vende solo il tablet Nexus 7, che però verosimilmente verrà affiancato da altri prodotti. Prima rimpingueranno gli scaffali, meglio sarà per loro: un negozio che vende un solo dispositivo (sebbene il negozio sia virtuale e il dispositivo esista in tre versioni) mette un po’ tristezza.
Da un confronto superficiale delle foto satellitari dell’Isola del Giglio pubblicate da Google e Bing, si direbbe che Microsoft guarda al futuro. O al passato.
Proseguono le spese pazze, in questo caso da parte di Google, che conferma di aver acquistato la startup WIMM Labs. In realtà l’operazione risale all’anno scorso, ma Google non aveva mai diffuso la notizia, probabilmente per guadagnare tempo e giocare sull’effetto sorpresa senza ispirare altri concorrenti: WIMM Labs, infatti, ha sviluppato uno smartwatch – ossia un orologio, in questo caso da polso – dotato di sistema operativo Android. Da parte di Google, quindi, è lecito attendersi novità in questo settore emergente.
Microsoft ha messo le mani su Nokia: l’annuncio ufficiale è di poche ore fa e formalizza una partnership destinata ad evolversi in questi termini.
In realtà il colosso americano non rileva tutta l’azienda finlandese, ma ciò per cui è conosciuta al grande pubblico con il suo marchio, cioè tutte le attività legate al settore della telefonia mobile, con licenze e brevetti, acquisendo – al momento per quattro anni – i diritti di utilizzo dei servizi di mappe e navigazione Cloud HERE. Rimarranno sotto il cappello Nokia il team di ricerca e sviluppo Advanced Technologies, la divisione Solutions and Networks (già “Nokia Siemens Networks”) e la titolarità dei servizi di mappe e navigazione Cloud HERE (in cui rientrano le attività di Navteq, noto produttore di mappe e sistemi informativi geografici utilizzati da molti navigatori satellitari).
Il valore dell’operazione di acquisto da parte di Microsoft è di 7,2 miliardi di dollari (5,4 miliardi di euro), una cifra decisamente inferiore ai 19 miliardi sparati un paio di anni fa da alcuni rumors che preannunciavano le intenzioni di acquisto su Nokia.
E’ verosimile ipotizzare che il brand Nokia sparisca gradualmente dal mercato della telefonia mobile, a favore del logo Microsoft, che potrebbe essere affiancato al nome della gamma di prodotti (Lumia e Asha). I mercati cambiano velocemente: fino a pochi anni fa Nokia era leader nel mondo dei telefoni cellulari, esattamente come, tempo addietro, lo fu Motorola. Le difficoltà sono iniziate con le evoluzioni del settore: da qualche anno, il cellulare non è più semplicemente un apparecchio telefonico, ma è un computer tascabile pieno zeppo di funzioni e accessori.
Da quando sul mercato sono arrivati gli smartphone, essere produttori di ottimi telefonini non è più stato sufficiente. I cellulari di Motorola sono stati acquistata da Google, quelli di Nokia da Microsoft. I colossi del software si aggiudicano l’hardware.
È una convergenza di business e di interessi. Come quella di Apple, che progetta in casa sia l’hardware che il software.
Post scriptum: altre novità potrebbero arrivare in Microsoft molto presto, considerando che Steve Ballmer è in procinto di abbandonare la sua poltrona di CEO, e che Stephen Elop sta facendo lo stesso passo, uscendo da Nokia per entrare in Microsoft come vice presidente esecutivo della divisione Devices & Services.
Secondo me, questa chiavetta per lo streaming chiamata Chromecast e venduta a 35 dollari potrebbe anche spaccare. Almeno, dove c’è banda abbastanza larga.
Nei giorni scorsi il Guardian è tornato a parlare del Datagate, divulgando ciò che la stampa ha etichettato come “nuove rivelazioni” di Edward Snowden. La notizia che sembra suscitare più stupore e scalpore riguarda Microsoft: secondo il nuovo scoop, l’azienda collabora con la NSA in relazione ai servizi di Outlook.com (intercettazioni delle chat online e impatto sulle mailbox della creazione di alias) e delle comunicazioni effettuate con Skype.
Io non capisco lo stupore di questi giorni, non sulle operazioni descritte. Il 6 giugno – oltre un mese fa – sono state pubblicatedal Guardian le ormai famose slide relative a PRISM. Una di esse delineava una linea temporale con le aziende coinvolte e la data in cui ha avuto inizio il loro coinvolgimento nel sistema di raccolta dati e informazioni sui servizi di comunicazione di queste aziende.
Come si può notare dalla figura (cliccare per ingrandire), Microsoft e Skype sono indicate chiaramente (la prima con data 11 settembre 2007, la seconda 6 febbraio 2011). Quindi mi chiedo: oltre un mese fa, cosa pensavano coloro che oggi si stupiscono? Nessuno, nell’apprendere di queste “collaborazioni” – a scopo di raccolta dati e intercettazioni – ha considerato che Microsoft offre da anni servizi di comunicazione (con Outlook.com, e prima Hotmail.com, ma ricordiamoci anche di Messenger), così come Skype, attiva anche prima di far parte del gruppo Microsoft? Quando è uscita quella slide pensavano che la NSA, con Microsoft e Skype, scambiasse figurine? Che si recapitassero piccioni viaggiatori?
L’unica verà novità che è emersa – ma pochi ne parlano – è che Microsoft ha lavorato con l’FBI per agevolare alla NSA l’accesso, attraverso PRISM, dei contenuti di SkyDrive, servizio di cloud storage che vanta oltre 250 milioni di utenti in tutto il mondo.
Quindi, nei prossimi giorni, nessuno cada dalle nuvole se si dovesse scoprire che la NSA, allo stesso scopo, ha sfruttato e sfrutta anche la collaborazione delle altre aziende come Google, Facebook e Yahoo, visto che si tratta di aziende che offrono mail, VoIP, piattaforme cloud per applicazioni e storage, social network con chat e servizi per condividere di tutto.
Ah, ricordo che di questo gruppo di aziende fa parte anche Apple. E che tutte queste aziende hanno utenti anche tra i cittadini italiani (ma all’orizzonte non si vedono istituzioni nostrane in allarme).
Per quanto riguarda gli operatori USA, la tariffa di AT&T è di 325 dollari come contributo di attivazione, a cui va aggiunto un canone giornaliero di 10 dollari. Operatori più piccoli, come Cricket e U.S. Cellular chiedono solo 250 dollari per l’attivazione. Verizon chiede 775 dollari per il primo mese e 500 dollari per ogni mese successivo.
Ora qualcuno si chiederà: tariffe per quale servizio? Domanda pertinente, risposta inaspettata (forse): si tratta delle tariffe previste per le intercettazioni commissionate dall’intelligence USA agli operatori di telecomunicazioni. Molto care per quanto riguarda la telefonia, più economiche sul fronte dell’accesso ai messaggi di posta elettronica, per i quali Facebook non chiede nemmeno un dollaro, ma nonostante Microsoft, Yahoo e Google non rivelino il loro listino prezzi in proposito, secondo una stima della ACLU – American Civil Liberties Union – l’accesso all’email costa circa 25 dollari.
Le cifre emergono da un articolo pubblicato su GlobalNews.ca, che riporta quanto svelato dal deputato Edward Markey e dall’ACLU.
Questo, a grandi linee, è ciò che riguarda il mercato delle intercettazioni d’oltreoceano. E nel Vecchio Continente?
Date un’ultima occhiata ad AltaVista perché la sua chiusura ufficiale è stata prevista per domani.
Per chi si chiedesse di cosa sto parlando: AltaVista negli anni ’90 era il motore di ricerca di riferimento. Fu lanciato da Digital Equipment nel 1995, lo stesso anno in cui Larry Page e Sergey Brin si incontrarono a Stanford, dando vita ad un’amicizia e ad una collaborazione professionale che, dopo pochi anni, avrebbe a sua volta dato vita a Google.
AltaVista, in realtà, è scomparso dal web già da qualche anno: il suo indirizzo porta solamente ad un’interfaccia alternativa di Yahoo! (che lo acquistò nel 2003).
La tecnologia non va frenata, ma è necessario conoscerne tutti gli aspetti affinché ognuno sia consapevole sia dei rischi che delle opportunità derivanti dalle innovazioni. I Google Glass non sfuggono a questa esigenza: fin dalla loro presentazione, gli Occhiali di Google hanno suscitato – oltre ad un certo entusiasmo – molte perplessità proprio per la loro attitudine tecnologica all’elaborazione elettronica dei dati e ai possibili problemi di privacy che il loro utilizzo può comportare.
Non si tratta solamente di un paio di occhiali speciali, ma di un dispositivo indossabile collegato a Internet, con sistema operativo Android, dotato di microcamera, microfono e modulo GPS. Dal punto di vista del prodotto è giusto pensare alle opportunità da cogliere: ci sono aspetti di design come quelli sottolineati da Luca (L’occhialeria italiana ci pensa? e Il prodotto, una sfida) e quelli legati allo sviluppo di applicazioni. C’è anche chi tenta di diventare competitor di Google in questo campo con prodotti più o meno analoghi, come provano a fare l’azienda italiana GlassUp, oppure Epson con il visore multimediale Moverio e Recon con i Jet.
C’è però un fattore molto importante da considerare: il progetto che ha portato ai Google Glass è molto articolato e alle sue spalle c’è un’azienda con molte risorse, economiche e tecnologiche (incluso, ad esempio, il know-how per il riconoscimento facciale) e con alcuni precedenti in tema di mancata tutela della privacy. Per questo motivo le Autorità di protezione dati di diversi continenti, riunite nel GPEN (Global Privacy Enforcement Network), hanno scritto una lettera a Google sullo sviluppo dei suoi Glass.
Tra le questioni sollevate, a cui si chiede risposta, troviamo domande legittima:
Quali informazioni raccoglie Google attraverso i “Glass”, i famosi occhiali a realtà aumentata?
Con chi le condivide?
Come intende utilizzarle?
Come viene garantito il rispetto delle legislazioni sulla privacy?
Come pensa Google di risolvere il problematico aspetto della raccolta di informazioni di persone che, a loro insaputa, vengono “riprese” e “registrate” tramite i Glass?
Tutto sommato, i Google Glass non raccolgono informazioni diverse da quelle che già oggi possono essere acquisite da un moderno smartphone. Ma rispetto a quest’ultimo, l’utilizzo è molto più agevole e consente un’acquisizione continua (batteria permettendo) e non facilmente identificabile da chi viene ripreso. Tra le Authority che si sono rivolte a Google c’è anche il nostro Garante della Privacy. Il presidente Soro osserva:
Chiunque finisse nel raggio visivo di chi indossa questi occhialipotrebbe, a quanto è dato sapere, venire fotografato, filmato, riconosciuto e, una volta avuto accesso ai suoi dati sparsi sul web, individuato nei suoi gusti, nelle sue opinioni, nelle sue scelte di vita. La sua vita gli verrebbe in qualche modo sottratta per finire nelle micro memorie degli occhiali o rilanciata in rete. Ci sono già norme che vietano la messa on line di dati personali senza il consenso degli interessati”.
Il passaggio chiave ricorda un concetto di cui parlo spesso anch’io
“Ma di fronte a questi strumenti le leggi non bastano: serve un salto di consapevolezza da parte di fornitori di servizi Internet, degli sviluppatori di software e degli utenti. E’ indispensabile ormai riuscire a promuovere a livello globale un uso etico delle nuove tecnologie”.
Last but not least, sarebbe interessante capire se esistono realmente eventuali rischi anche per la salute: trattandosi di un prodotto completamente nuovo, oggi non ne esiste esperienza e quindi non esiste nemmeno uno studio al riguardo. Il loro utilizzo, se comporta movimenti continui e differenti esigenze di messa a fuoco, a me farebbe pensare quantomeno ad uno stress da affaticamento visivo, ma c’è già chi parla seriamente di distrazioni potenzialmente pericolose e disturbi delle capacità cognitive.
Per concludere queste osservazioni con un sorriso, ecco cosa potrebbe accadere indossando i Google Glass senza la dovuta accortezza…