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La tossicità dei social, spiegata (da Facebook)

Qualche settimana fa il Wall Street Journal ha pubblicato un’inchiesta per illustrare lo studio che Facebook ha commissionato ad un gruppo di propri ricercatori riguardo all’impatto di Instagram sui giovani utenti, che ha portato alla luce effetti particolarmente dannosi soprattutto per le ragazze nell’età dell’adolescenza. L’inchiesta, però, fa parte di un corposo dossier chiamato Facebook Files, focalizzato su documenti aziendali riservati che si concentrano su varie tematiche, che riguardano – oltre l’effetto di Instagram sull’utenza più giovane – le modalità di trattamento di opinioni controverse, gli utilizzi fraudolenti e l’approccio al tema “Covid 19 + Vaccini”.

Facebook Inc. è pienamente consapevole che le sue piattaforme sono piene di difetti che possono causano danni, spesso in modi che solo l’azienda comprende pienamente. Questa è la conclusione centrale di una serie del Wall Street Journal, basata sull’analisi di documenti interni di Facebook, inclusi rapporti di ricerca, discussioni online dei dipendenti e bozze delle presentazioni al senior management.

In più occasioni, i documenti mostrano che i ricercatori di Facebook hanno identificato gli effetti negativi della piattaforma. Nonostante le udienze del Congresso, le sue stesse promesse e numerose dichiarazioni attraverso i media, l’azienda non ha risolto nulla. I documenti offrono forse il quadro più chiaro finora di quanto i problemi di Facebook siano ampiamente noti all’interno della società, persino allo stesso amministratore delegato.

(dall’introduzione dell’inchiesta “The Facebook Files”)

Fra le fonti del Journal – lo si è scoperto in questi giorni – c’è Frances Haugen, ingegnere informatico che ha lavorato per l’azienda di Mark Zuckerberg per un paio d’anni, per poi uscirne dopo aver constatato che la sicurezza e la serenità degli utenti sono sempre state messe in secondo piano, per favorire il profitto:

Sono entrata in Facebook nel 2019 perché qualcuno a me vicino è stato radicalizzato online. Mi sono sentita in dovere di assumere un ruolo attivo nella creazione di un Facebook migliore e meno tossico. Durante il mio periodo in Facebook, prima lavorando come lead product manager per la Civic Misinformation e poi per il Counter-Espionage, ho avuto la possibilità di osservare come Facebook abbia ripetutamente affrontato conflitti tra i propri profitti e la nostra sicurezza. Facebook ha sempre risolto questi conflitti in favore dei propri profitti. Il risultato è stato un sistema che amplifica la divisione, l’estremismo e la polarizzazione e mina le società di tutto il mondo. In alcuni casi, questo pericoloso discorso online ha portato alla violenza reale che danneggia e addirittura uccide le persone. In altri casi, la loro macchina di ottimizzazione del profitto sta generando autolesionismo e odio verso se stessi – specialmente per gruppi vulnerabili, come le ragazze adolescenti. Questi problemi sono stati confermati ripetutamente dalla ricerca interna di Facebook.

Lo studio condotto su Instagram negli ultimi tre anni ha effettivamente evidenziato aspetti di rilevanza socio-psicologica come l’ansia e la depressione di cui soffrono molte ragazze, a causa del confronto con l’aspetto fisico ostentato da altre utenti. Per avere un’idea di quanto è emerso dalla ricerca si può partire da un dato alquanto emblematico, riportato da una slide pubblicata nel marzo 2020 nella bacheca interna di Facebook: “Il trentadue per cento delle ragazze adolescenti hanno detto che, quando si sentivano male per il loro corpo, Instagram le faceva sentire peggio”. I risultati della ricerca sarebbero ben noti internamente a Facebook (che ha acquisito Instagram nel 2012 per rimettere le mani sul bacino d’utenza che stava perdendo), per la quale i giovani utenti rappresentano una base fondamentale per il suo fatturato, che ammonta in un anno a oltre 100 miliardi di dollari e proviene dal business delle inserzioni pubblicitarie. Gli utenti fino ai 22 anni di età rappresentano oltre il 40% del totale degli iscritti. Le problematiche più serie rilevate nella ricerca – osservano gli autori nelle proprie conclusioni – riguardano soprattutto Instagram, e non altri social media come TikTok o Snapchat ad esempio, perché si focalizza sullo stile di vita e sul corpo degli utenti, per cui spinge al confronto sociale, cioè a quanto una persona valuta il proprio “valore” e lo rapporta agli altri sul piano del successo, della ricchezza economica e dell’attrattiva.

E’ necessario riportare che, sempre secondo lo stesso studio, la maggior parte degli utenti in età adolescenziale utilizza Instagram come strumento di comunicazione tra amici o per l’intrattenimento personale e, in tal modo, gli effetti dannosi non vengono percepiti, o comunque vengono gestiti ed evitati. Tuttavia i numeri delle “vittime” di questo fenomeno del confronto sociale, da una ricerca condotta tra gli utenti di Stati Uniti e Gran Bretagna, emerge che oltre su Instagram oltre il 40% degli utenti che hanno dichiarato di sentirsi “poco attraenti” ha confidato che tale sensazione è scaturita dall’utilizzo dell’app, da cui però non si staccano per un senso di dipendenza, che si è accentuato durante i periodi di isolamento nell’emergenza sanitaria.

L’obiettivo aziendale è favorire la proliferazione di post, commenti e reazioni, indipendentemente dall’argomento. E con questo presupposto il sistema è stato messo in grado di apprendere quali temi suscitano reazioni contrariate da parte di un utente (sulle quali è più propenso ad esprimersi, scatenando ulteriori reazioni), rendendo ancor più facile il gioco a vari influencer. La dirigenza di Facebook, dovendo scegliere, anziché agire e trovare una soluzione in grado di smorzare i toni per placare gli animi ha preferito lasciare che gli utenti potessero (virtualmente) azzuffarsi tra loro a favore della “crescita delle conversazioni”.

Sul fronte legato a Covid 19 e relativi vaccini, invece, Facebook si è proposta quale strumento di supporto per aiutare gli utenti a trovare il più vicino centro vaccinale e fornire ulteriori informazioni con il Covid Information Center per Instagram e una serie di chatbot attivati su WhatsApp, come dichiarato nel comunicato pubblicato lo scorso marzo. Nell’algoritmo di presentazione di contenuti agli utenti sono state inserite istruzioni per limitare al massimo i post con invito a non sottoporsi a vaccinazione, regola che però è andata a scontrarsi con tute le indicazioni che nell’algoritmo devono favorire la diffusione e la proliferazione di commenti da parte degli utenti. Risultato: ogni post “pro-vax” otteneva (e ottiene) per reazione una valanga di commenti e post contrari alla vaccinazione, reazione che in realtà è stata prevista e ben nota ai vertici dell’azienda. Non solo: tutto questo ha vanificato l’efficacia dei filtri posti a contrasto della diffusione di bufale e fake news. Contromisure? Nessuna.

Ora, un po’ di buon senso: come ho osservato tempo fa, nell’utilizzo dei social network da parte degli utenti più giovani è assolutamente necessario non essere abbandonati dagli adulti, che anzi devono mantenere quella vicinanza e quel supporto che, con il tempo, permettono di cogliere le opportunità creative e di intrattenimento, ma soprattutto contribuiscono alla crescita e la maturazione della consapevolezza delle proprie azioni, così come dei rischi a cui i ragazzi vanno incontro isolandosi in quella sfera virtuale in cui sono inevitabilmente soli, anche quando si illudono di mantenersi in contatto (superficiale) con tantissime persone. Affidare uno smartphone o un tablet a un figlio deve essere una scelta consapevole di tutto ciò che questa responsabilità comporta e non può essere limitata alla spinta del confronto sociale (concetto che ritorna, qui in altro aspetto), quel confronto trasmesso dal “ce l’hanno anche gli altri”, men che meno dalla presunta necessità di dargli uno strumento di intrattenimento per “tenerlo tranquillo”. Sicuramente è più semplice dirlo che concretizzarlo, ma non bisogna mai demordere.

 
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Pubblicato da su 7 ottobre 2021 in news

 

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Safer Internet Day, per una rete più sicura

Si celebra oggi la diciottesima edizione del Safer Internet Day per sensibilizzare tutti ad impegnarsi per “rendere Internet un luogo migliore e più sicuro per tutti, soprattutto per i bambini e i giovani”. Moltissime le iniziative promosse a tutti i livelli, da quelle locali a quelle nazionali. L’obiettivo di focalizzarsi soprattutto sugli utenti più giovani è motivato dai numeri, resi più indicativi dall’emergenza sanitaria che ha modificato usi e costumi di tutti noi:

1 su 5 si definisce praticamente sempre connesso, 6 su 10 sono online dalle 5 alle 10 ore al giorno. Numeri raddoppiati rispetto allo scorso anno, complici anche i periodi passati a casa, lontano da scuola o da altre attività di socializzazione, durante la pandemia. Per il 59% gli episodi di cyberbullismo sono aumentanti. (fonte: miur.it – generazioniconnesse.it)

Come per la giornata nazionale contro bullismo e cyberbullismo (domenica 7 febbraio), è bene ricordare che i principi e i valori che ci “ricordano” devono valere sempre e non solo in occasione delle giornate dedicate a questi argomenti. Altro aspetto da non ignorare è che si tratta di tematiche particolarmente interessanti per i giovani e per questo l’attenzione è particolarmente rivolta all’ambiente scolastico e il Ministero dell’Istruzione si fa promotore di molte iniziative in questo senso.

Bullismo e cyberbullismo, insieme alla necessità di avere in Internet un luogo migliore e più sicuro, non riguardano tuttavia solo la scuola e questo va tenuto presente soprattutto per quei giovani che in rete si rifugiano per trovare occasioni di socializzazione o di sfogo di cui difficilmente riescono a fare esperienza di persona, senza avvedersi di situazioni potenzialmente rischiose o pericolose.

E anche in questo caso, a costo di essere ripetitivo, torno su quanto scritto in alcuni post precedenti in merito all’uso di Internet da parte dei minori: il compito di chi ha la responsabilità genitoriale è importante, non lasciamoli soli in un cammino “da autodidatta”, ma aiutiamoli e affianchiamoli, anche nel loro percorso di conoscenza delle tecnologie di comunicazione.

La necessità di non lasciarli soli, oltre ad una questione educativa, può anche nascere da aspetti puramente materiali come ha scoperto, letteralmente a proprie spese, la madre di un bambino tedesco di sette anni che – “giocando” con lo smartphone – ha effettuato acquisti online per oltre 2.700 euro.

Chissà che questo genere di rischio non possa generare qualche scrupolo in più, d’altronde alcune persone capiscono più rapidamente, se toccate nel portafogli. Perché le esigenze di una rete più sicura non sono legate solo a cyberbullismo, social network e isolamento sociale dei ragazzi, ma anche a tematiche relative a privacy, identità digitale, dipendenze digitali, truffe online.

 
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Pubblicato da su 9 febbraio 2021 in news

 

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Odio in rete, il “mandante” è responsabile

I leoni da tastiera ancora convinti che sui social network sia possibile offendere, insultare e minacciare – con nome e cognome, o nascondendosi dietro un presunto anonimato – si trovano ora a dover fare i conti con un ennesimo promemoria: una pesante sentenza per diffamazione che colpisce chi ha invitato (e incitato) gli utenti ad esprimere dissenso nei confronti di altre persone, in una vicenda che ha visto protagonisti tre personaggi dello spettacolo – il Trio Medusa composto da Gabriele Corsi, Giorgio Daviddi e Furio Corsetti – vincere una causa con un provvedimento di importanza storica perché costituisce un precedente di rilievo sul tema dell’odio in Rete.

Il fatto è ben spiegato dagli stessi interessati, con il supporto dell’avvocato Francesco Donzelli intervenuto nella loro trasmissione radiofonica (Chiamate Roma Triuno Triuno – Radio Deejay), che spiegano quanto avvenuto nel 2013: in una puntata del loro programma era stato citato (ironicamente, ma senza particolari commenti) il tema del signoraggio bancario. In seguito all’episodio, il titolare di blog che a quell’argomento ha dedicato molti post, aveva scritto:

Alcuni lettori ci hanno segnalato che il Trio Medusa in una rubrica trasmessa su Radio Deejay ha screditato il tema del signoraggio bancario […] inoltre hanno denigrato coloro che ne parlano: dipinti, in pratica, come poveri pirla”. “Invitiamo tutti i nostri lettori ad esprimere – in modo civile – dissenso per la trasmissione in questione allo staff del Trio Medusa, direttamente sulla loro pagina Facebook chiedendo al Trio Medusa di ‘rettificare’ in merito ad una questione sicuramente molto seria, sulla quale c’è ben poco da ridere.

L’effetto di quell’invito ad esprimere dissenso – e non l’invito stesso, espresso con termini moderati – ricorda da vicino l’incitazione “Al mio segnale scatenate l’inferno” pronunciata dal generale Massimo Decimo Meridio (Il Gladiatore): da quel momento gli utenti si sono mobilitati in massa scrivendo volgarità, offese, e minacce nei confronti dei conduttori (e delle loro famiglie) sulle loro pagine social. Una mole di fango che li ha spinti ad agire ricorrendo alle vie legali, non solo per tutelarsi, ma per incoraggiare tutte le vittime dell’odio in rete a non avere paura di denunciare. L’esito dell’azione legale non poteva essere più significativo: la decisione del giudice non si limita a riconoscere la responsabilità di chi offende direttamente sui social, ma la attribuisce al mandante, cioè a chi ha invitato gli utenti – anche in modo indiretto e apparentemente civile – ad esporsi, letteralmente, su suo mandato. In questo caso specifico,

Tutto questo riguarda anche chi – come accennavo inizialmente – pensa di potersi nascondere dietro un presunto anonimato: scrivere su social network post o commenti con uno pseudonimo non mette nessuno al riparo dalle proprie responsabilità. Non parliamo poi di chi – anziché con un nickname di fantasia – scrive sotto mentite spoglie, ossia con nomi di altre persone realmente esistenti e ignare dei fatti, configurando – oltre alla diffamazione – il reato di furto di identità. Le forze dell’ordine sono in grado di rintracciare i dati per ogni pubblicazione, anche dopo eventuali cancellazioni.

Congratulazioni al Trio e all’avvocato Francesco Donzelli, che in trasmissione ha ringraziato pubblicamente il collega Daniele Biancifiori per il supporto.

 
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Pubblicato da su 26 gennaio 2021 in news

 

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Un “virus informatico” può essere un’arma letale

10 settembre – Düsseldorf (Germania): la rete informatica dell’ospedale universitario della città tedesca viene bloccata da un attacco informatico. Una paziente, bisognosa di cure immediate, viene così trasferita al più lontano ospedale di Wuppertal, ma le sue condizioni sono troppo gravi e muore proprio perché non è stato possibile curarla tempestivamente. Secondo quanto riportato dalla stampa tedesca, si tratterebbe del primo caso di morte conseguente ad un ransomware, un malware che attiva un blocco sui contenuti dei computer colpiti, che possono essere sbloccati in seguito al pagamento di un vero e proprio riscatto.

21 settembre – Milano, Belluno, Padova – la rete di alcune sedi di Luxottica subisce un attacco sferrato allo stesso scopo (criptare i dati aziendali). L’azione non ottiene l’effetto sperato da parte dei malintenzionati, ma causa disagi che spingono l’azienda a disattivare alcuni servizi online e sospendere l’attività di alcuni reparti produttivi. Nel giro di alcune ore un problema analogo viene segnalato dal gruppo Carraro: attività lavorativa bloccata, settecento dipendenti in cassa integrazione per alcuni giorni, fino al ripristino dei sistemi informatici dell’azienda.

Sono solo due esempi recenti di quanto pericolisi possano essere attacchi di questo tipo. Gli ultimi in ordine di tempo, ma del tutto simili ad altri che sono accaduti in precedenza, ai danni di molte altre aziende, più o meno note al grande pubblico. Molto spesso – da chi non ha mai subìto conseguenze di rilievo – il “virus informatico” viene ritenuto un problema di lieve entità, con conseguenze superabili, da risolvere con un backup effettuato senza troppa attenzione. La realtà è ben diversa e naturalmente i problemi sono maggiori se l’attività dell’organizzazione ha importanza critica, coinvolge molte persone e viene svolta con un’infrastruttura complessa.

Non è necessario spiegare la criticità dell’attività di un ospedale, che si impegna nel curare e salvare vite umane (e si attendono conferme sulla possibilità che in un ospedale americano siano deceduti quattro pazienti per motivi analoghi), ma non deve sfuggire che un’azienda manifatturiera o di servizi che non può accedere alle proprie informazioni, può essere messa improvvisamente in ginocchio con conseguenze paragonabili alle peggiori crisi di mercato. Gli imprenditori, che sanno cosa significa avere un’azienda ferma e sanno cosa comporta dover mandare a casa i propri dipendenti, comprenderanno sicuramente la necessità di dotarsi di misure di sicurezza adeguate, che non devono più essere considerate un costo, ma un investimento.

Ma anche chi gestisce un servizio di interesse collettivo può cogliere l’occasione di riflettere su quanto possa essere a rischio un’attività il cui funzionamento tutti danno per scontato: dagli acquedotti agli enti che distribuiscono la corrente elettrica, fino alla gestione della viabilità di una città (semafori inclusi), i servizi che possono andare il tilt e creare danno estremamente seri sono moltissimi.

Proporzionalmente, questa necessità riguarda tutti noi: anche il privato cittadino ha solo da perdere, se non mette al sicuro i propri dati. Quindi cominciamo a vedere la sicurezza dei dati come una necessità, non come qualcosa in più.

 
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Pubblicato da su 28 settembre 2020 in news

 

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Leoni da tastiera, imparate a difendervi. Da voi stessi

Lo scorso 25 novembre, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donneLaura Boldrini – attuale presidente della Camera – ha esemplificato la violenza riunendo in un tweet alcune tra le peggiori violenze verbali ricevute tramite social network nell’ultimo mese. Insulti senza senso che non necessitano di commento, scritti da persone che in propria difesa non possono addurre oggettivamente alcun tipo di giustificazione, indipendentemente dalla stima o dal disprezzo che possono nutrire verso la persona a cui sono rivolti. Nell’esporre quei messaggi così brutalmente offensivi, Laura Boldrini ha chiesto “Secondo voi questa è libertà di espressione?”

Dall’intervista all’autrice di uno di quei commenti emerge che gli insulti scritti con tanta ferocia erano uno “sfogo”:

boldrini25nov2016-c1

A tale proposito, questo problema mi ricorda il trattamento che Selvaggia Lucarelli riserva ad alcuni dei leoni da tastiera che la insultano su Facebook per ciò che scrive: li rintraccia telefonicamente e chiede loro conto di ciò che hanno scritto, mandando in onda la conversazione nella trasmissione radiofonica che conduce. Spesso la reazione dei malcapitati non è molto diversa da quella riportata sopra, ma questa è la realtà di molti fra quelli che vengono indicati come haters, quegli odiatori che esprimono il proprio astio verso persone che per loro rappresentano o impersonano il motivo della loro insoddisfazione: gente che non è in grado di cogliere la differenza tra uno sfogo inappropriato (quando non deprecabile) espresso in un contesto limitato come una chiacchierata tra quattro amici al bar, e un commento con le stesse parole scritte direttamente ad una persona tramite social network, quindi amplificato da uno strumento di comunicazione che offre una visibilità globale e scatena un effetto branco.

La domanda di Laura Boldrini “Secondo voi questa è libertà di espressione?” fa riferimento agli insulti, ma può anche essere riferirla a quello stesso tweet. E la risposta è no, per entrambe le chiavi di lettura. Libertà di espressione non è, ovviamente, avere la possibilità di scrivere insulti a chi pare a noi. Ma nemmeno mettere alla gogna gli autori di quelle violenze verbali lo è, nonostante sia un fenomeno da contrastare con fermezza e chi se ne rende colpevole meriti di comprendere la reale entità e pesantezza della violenza che commette. Si potrebbe pensare che mettere in mostra i loro nomi e cognomi, con ciò che hanno scritto, possa essere utile a questo obiettivo e in un certo senso lo è, perché quelle persone esprimeranno pentimento e vergogna. Ma questa reazione non avrà effetto su altri che continueranno a comportarsi nello stesso modo, eventualmente protetti da uno pseudonimo che ne renderà meno immediato il riconoscimento, comunque possibile alle forze dell’ordine che hanno facoltà di intervenire dopo aver ricevuto segnalazioni a questo proposito. E non frenerà lo spargimento di odio in Rete o il cyberbullismo.

Con queste reazioni, soprattutto, viene meno l’aspetto educativo: chi si rende colpevole di queste violenze trasmesse attraverso un social network non è altro che l’ennesimo esempio di utente ignaro che utilizza la Rete senza conoscerne tutti gli aspetti, senza consapevolezza alcuna delle conseguenze che possono avere le proprie azioni. Conseguenze che possono colpire altre persone in modo più feroce di quanto non si creda, ma che possono colpire come un boomerang anche lo stesso utente ignaro, nella sua veste di utonto, webete o leone da tastiera, che si espone con leggerezza e non pensa che potrebbe essere denunciato o esposto a sua volta al pubblico ludibrio. Perché nei social network, che sono sottoinsieme di Internet e – ancor più globalmente – del mondo concreto, ognuno è responsabile delle proprie azioni. Mai dimenticarlo.

Sopra ogni altra considerazione andrebbe sempre tenuto ben presente che chi sparge odio (in rete, ma non solo) non rispetta gli altri e non rispetta se stesso. Educhiamo chi ci sta vicino al rispetto. Cominciamo dalle piccole cose e non dimentichiamo di farlo sempre.

 
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Pubblicato da su 28 novembre 2016 in news

 

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Italia sempre più connessa e sempre più mobile

rapportoagcom2016

Non è vero che le Authority non servono a niente: un esempio è il rapporto “Il consumo di servizi di comunicazione: esperienze e prospettive”,  pubblicato dall’Agcom (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni) in seguito ad un’indagine sugli strumenti di comunicazione (telefonia, Internet, servizi postali) che ha coinvolto utenti tra i 14 e 74 anni (male, conosco utenti in età più avanzata). Il risultato più evidente? La gente è sempre più connessa e, mentre i giovani conoscono molto bene ogni opportunità del settore, con l’aumentare dell’età diminuisce la dimestichezza con gli strumenti disponibili: solo il 33% dei Matures, formato da persone con età dai 65 ai 74 anni, dispone di un accesso Internet.

Altri aspetti molto rappresentativi sono quelli legati al mercato , con particolare riguardo a quello degli strumenti hardware (ossia i dispositivi) di connessione a Internet, sempre più mobile e quindi sempre più wireless:

internetitaliamercato2016

Il grafico ci fa capire dove si orientano e si orienteranno gli investimenti dei maggiori operatori del settore, sia in termini di infrastruttura che di sviluppo hardware e software. Intuendo una sempre più rilevante importanza del mobile, c’è un altro dato significativo e importante da sottolineare:

cellulariitaliamercato2016

L’attuale distribuzione degli utenti per compagnia telefonica mostra una leadership di TIM evidente, ma con un margine alquanto sottile. Nella prospettiva – in avvicinamento – della fusione tra Wind e H3G, appare chiaro come il nuovo operatore che ne nascerà conquisterà fin da subito una quota di mercato pari almeno al 35% (la somma dei clienti oggi vantati rispettivamente dalle due compagnie), superando Tim e Vodafone.

Operatori del settore e addetti ai lavori ringraziano l’Agcom per l’accurata indagine di mercato.

 
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Pubblicato da su 25 ottobre 2016 in news

 

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Una Internet “europea”?

EuropaInternet

Lo scandalo esploso l’anno scorso con il nome di Datagate continua a partorire conseguenze più o meno prevedibili. L’ultima – ma solo per ora, in ordine di tempo – è l’idea espressa da Angela Merkel di realizzare una rete di comunicazioni europea, separata dagli USA e non controllabile dai servizi di intelligence d’oltreoceano. La cancelliera intende approfondire questo progetto con il presidente francese Francois Hollande in occasione del loro incontro a Parigi, prefigurando la costituzione di una sorta di asse franco-tedesco che guidi l’Europa verso una Internet indipendente.

Al pari di quelle di molti altri rappresentanti di Stato, anche le conversazioni telefoniche di Angela Merkel sono state intercettate nell’ambito del programma PRISM lanciato dalla NSA, ma anche dal programma TEMPORA avviato dal GCHQ britannico. Una vicenda che ha fatto scroprire alla Merkel che una fetta enorme del traffico di telecomunicazioni generato dall’Europa passa dagli USA, per questioni fondamentalmente economiche, dato che in America esistono infrastrutture di telecomunicazioni che permettono di veicolare le informazioni a condizioni molto convenienti. E come riporta il settimanale tedesco Der Spiegel, la Germania – legittimamente – non può tollerare di essere in grado di assicurare alla giustizia un borseggiatore e di non riuscire neppure ad aprire un’indagine sulle intercettazioni al cellulare della cancelliera.

Da queste vicende (ma non solo) parte l’idea di realizzare una rete di telecomunicazioni europea, un progetto che però dovrà considerare di dover prendere una posizione nei confronti della Gran Bretagna, che non si trova oltreoceano e che è parte dell’Europa. Dovrà considerare anche gli accordi dell’intesa chiamata Safe Harbor, siglata tra Stati Uniti ed Europa, che alle aziende americane che operano su Internet con clienti europei offre una certa flessibilità sul rispetto delle normative privacy in vigore nel Vecchio Continente.

Inoltre non potrà trascurare che l’avvento delle moderne tecnologie di comunicazione, e quindi della Internet che conosciamo, quella per cui risulta più conveniente far passare dagli Stati Uniti persino un messaggio di posta elettronica spedito da Milano a Roma, ha abbattuto i confini geografici e cambiato il concetto di sicurezza nazionale. Soprattutto ha reso più complesso quello della sicurezza dei dati e delle informazioni: le operazioni di spionaggio da parte dei servizi di intelligence americani non costituiscono un problema esclusivamente europeo. Anche alcuni servizi europei vi hanno preso parte e gli spiati non sono solo europei. E ciò è stato reso possibile con la collaborazione più o meno volontaria delle aziende di cui tutti sfruttano i servizi di comunicazione, nonché grazie alla conoscenza di tecnologie per eludere o escludere i sistemi di sicurezza adottati sulle reti. Questi fattori si ripresenterebbero con la stessa criticità anche se venisse realizzata una rete di telecomunicazioni esclusivamente europea, pertanto il problema della sicurezza verrebbe trasferito, anzi “localizzato”, ma non eliminato.

Merkel e Hollande forse non conoscono personalmente questi aspetti, ma nel loro entourage annoverano sicuramente consiglieri ed esperti che li conoscono a fondo e che sono perfettamente consapevoli delle difficoltà tecniche, politiche ed economiche che questa idea incontrerà. Ma in questo momento, probabilmente, è più importante annunciare il progetto per dare alla cittadinanza europea l’impressione di un interessamento concreto. Sull’opportunità e sulla fattibilità dell’idea si ragionerà più avanti. Forse.

 
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Pubblicato da su 17 febbraio 2014 in Internet, istituzioni, news, security

 

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Telecom Italia, ok alla rete compartecipata

Telecom Italia ha approvato il progetto di societarizzazione della rete di accesso. Anche se con dinamiche da approfondire e con un percorso che avrà tempi verosimilmente lunghi, è un piccolo passo verso un’unica rete di telecomunicazioni nazionale, che consentirà di evitare sovrapposizioni tra reti di operatori differenti e di concentrare investimenti e innovazione su un’infrastruttura condivisa, partecipata da più Società (e non da un unico titolare, che vi investe – legittimamente – in funzione delle proprie possibilità e della propria convenienza).

 
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Pubblicato da su 31 Maggio 2013 in news

 

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La cura

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Salvatore Iaconesi ha un tumore al cervello. Da tecnologo orientato all’open source, ha pensato (bene) che condividere via Internet la propria cartella clinica fosse la strada più naturale da percorrere per trovare una cura.

Come? Lo spiega nel suo sito web:

Ho un tumore al cervello.
Ieri sono andato a ritirare la mia cartella clinica digitale: devo farla vedere a molti dottori.
Purtroppo era in formato chiuso e proprietario e, quindi, non potevo aprirla né con il mio computer, né potevo mandarla in quel formato a tutti coloro che avrebbero potuto salvarmi la vita.

L’ho craccata.
L’ho aperta e ho trasformato i suoi contenuti in formati aperti, in modo da poterlicondividere con tutti.

Nel giro di poche ore è riuscito a condividere questi dati con tre medici, due dei quali lo hanno già contattato.

L’idea ha un approccio open data e l’obiettivo è più ampio di quanto si possa intuire:

Progressivamente, renderò disponibili tutte le risposte che riceverò, sempre in formati aperti, così che chiunque abbia il mio stesso male possa beneficiare delle soluzioni che ho trovato.

Questa è una CURA. E’ la mia CURA OPEN SOURCE.
Questo è un invito a prendere parte alla CURA.

CURA, in diverse culture, vuol dire diverse cose.
Ci sono cure per il corpo, per lo spirito, per la comunicazione.
Prendete le informazioni sul mio male, se ne avete voglia, e datemi una CURA: fateci un video, un’opera d’arte, una mappa, un testo, una poesia, un gioco, oppure provate a capire come risolvere il mio problema di salute.

Artisti, designer, hacker, scienziati, dottori, fotografi, videomaker, musicisti, scrittori.Tutti possono darmi una CURA.

E l’invito è di creare una CURA usando i contenuti reperibili in DATI/DATA nel sito artisopensource.net/cure, e di inviarla all’indirizzo info@artisopensource.net.

E questo, a mio avviso, al di là del banale gioco di parole che potrebbe sembrare fine a se stesso, è uno stupendo esempio di apertura mentale. La cura è già iniziata.

 
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Pubblicato da su 10 settembre 2012 in Internet, Life, Mondo, news

 

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