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L’altra guerra: quella alla disinformazione

Il conflitto in Ucraina – esploso fragorosamente la scorsa settimana, ma iniziato circa otto anni fa – ci viene illustrato e descritto in questi giorni da un flusso impressionante di immagini, video, post, testimonianze dirette e indirette provenienti da radio, tv, giornali e fonti di informazione sul web. La propagazione di tutto questo materiale veicolato dai social network fa riemergere la necessità di affrontare il sempre attuale fenomeno della disinformazione che, agevolata dalla frenesia del contesto, aumenta confusione e disorientamento. Facebook, Instagram, Twitter, YouTube e altri protagonisti si dichiarano impegnati su questo fronte. Ma con quale efficacia?

Risposta breve: l’efficacia sarà sempre scarsa perché, come abbiamo ormai imparato dalla storia recente, è e sarà sempre difficile contrastare le fake news, finché al mondo esisteranno punti di vista differenti, interessi opposti e – soprattutto – soggetti che non si fanno scrupoli a promuoverli in modo ingannevole nei confronti di persone predisposte ad accettarli senza approfondire. Con questi presupposti la disinformazione potrà anche cambiare mezzi e forme di diffusione, ma continuerà a sopravvivere e prosperare.

Ciò che si può fare – e qui inizia la risposta argomentata – è mettere in campo soluzioni per dimostrare che non sempre le informazioni sono attendibili, facendo in modo che non vengano sempre accettate in modo passivo e acritico, ma che possano essere valutate e confrontate in un contesto più ampio. Non esistono più le certezze basate sul “Lo hanno detto tv e giornali” o “L’ho trovato su Internet” e questo è assodato da tempo, ma è ovviamente più semplice credere subito a ciò che si riceve, soprattutto quando si è allineati a idee e pregiudizi coltivati e radicati nel tempo. Nathaniel Gleicher, responsabile delle politiche di sicurezza di Meta (la società che controlla Facebook, Instagram e WhatsApp), ad esempio ha annunciato l’attivazione di un servizio di moderazione e verifica dei contenuti pubblicati in tempo reale, con l’obiettivo di eliminare le pubblicazioni ingannevoli e fuorvianti sul conflitto in Ucraina. Compito non semplice, che può portare anche a errori di valutazione, come è accaduto su Twitter, e ovviamente più sono le notizie e le fonti da controllare, più è difficile verificarle attraverso algoritmi e controlli effettuati da persone in carne ed ossa, con il rischio di eliminare contenuti o account attendibili.

L’impresa si fa ancora più ardua quando una notizia non veritiera viene amplificata dai social dopo essere stata diffusa da testate giornalistiche, come dimostra l’articolo pubblicato il 26 febbraio – e poi rimosso – dall’agenzia russa Ria Novosti relativo all’avvenuta annessione dell’Ucraina alla Russia (ne rimane traccia qui: https://web.archive.org/web/20220226224717/https://ria.ru/20220226/rossiya-1775162336.html).

E’ anche vero che l’informazione può essere inattendibile per errore e anche le “nostre” testate non sono esenti da scivoloni imbarazzanti: ce ne hanno dato prova varie fonti, tra cui il TG2, che ha trasmesso le immagini di una squadra di aerei militari durante una parata militare del 2020, dichiarando che si trattava di caccia che incombevano minacciosamente sulla capitale Ucraina, oppure animazioni tratte da un videogioco (War of Thunder) descritte come immagini di un bombardamento vero e proprio:

Il sensazionalismo e l’obiettivo di arrivare “primi su una notizia” possono portare a una disinformazione pericolosa quanto quella generata dalle fake news, se non c’è accuratezza nell’informazione, ne’ controllo delle fonti. Non esprimo giudizi sulle immagini di giornalisti inviati in Ucraina che indossano elmetti e giubbotti antiproiettile mentre conducono servizi televisivi in cui si vedono civili che si muovono più o meno con disinvoltura senza particolari precauzioni o “come se niente fosse”, poiché non conosco i “protocolli di sicurezza” che devono seguire, ma sicuramente vedere una persona che cammina tranquillamente per strada vicino ad un inviato “in assetto da guerra” davanti ad una telecamera può generare qualche dubbio nello spettatore più attento.

In ogni caso, la pagina web in cui l’EDMO (European Digital Media Observatory) si focalizza proprio sulla disinformazione relativa al conflitto in Ucraina (https://edmo.eu/2022/02/24/fact-checked-disinformation-on-the-war-in-ukraine-detected-in-the-eu-2022/) è in continuo aggiornamento, per fortuna (perché offre possibilità di verifica) e purtroppo (perché persistono necessità di verifica).

 
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Pubblicato da su 28 febbraio 2022 in news, News da Internet

 

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Fake news: non punibile se non è credibile?

Ricordate la bufala dell’arresto di J-AX e Fedez per possesso di sostanze stupefacenti? La notizia – rivelatasi falsa – in poche ore fece il giro del web e per questo i due interessati sporsero denuncia per diffamazione nei confronti dell’autore. La Procura di Milano – è notizia delle scorse ore – ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta perché la diffusione di quella falsa notizia (segue citazione della motivazione) «si colloca nel contesto della disinformazione che spesso caratterizza l’ambito delle notizie dedicate al cosiddetto gossip con la spettacolarizzazione del pettegolezzo» e perché l’autore, notoriamente, non è credibile. E’ una buona notizia? No, non lo è per nessuno, nemmeno per il “non credibile” autore.

Breve riassunto della vicenda: la “cosa” fu pubblicata e diffusa mediante il sito Rollingstone.live, il cui nome e logo inducevano a identificarlo con l’edizione italiana di Rolling Stone, ma con la quale non aveva nulla da spartire. L’autore era Ermes Maiolica, nome ampiamente conosciuto nel mondo delle fake news, che aveva firmato quella pubblicazione come Pikkolo Angielo. A quale scopo? La spiegazione l’aveva data lui stesso proprio all’edizione legittima di Rolling Stones, lo scopo era lo stesso delle altre bufale: pubblicare notizie palesemente fasulle “per ridicolizzare quelle realistiche, per vaccinarci un po’ tutti contro il fenomeno delle fake news”. Chiaro? Probabilmente sì. Condivisibile? No, ma di questo – poco dopo – se ne è reso conto anche lo stesso Maiolica, che ha definito il suo articolo “un esperimento sociale fatto coi piedi”, come si legge in un articolo pubblicato da Open.

A oltre quattro anni di distanza da quell’episodio, il fenomeno delle fake news non si è affatto ridimensionato, direi anzi che si è mantenuto stabile e alimenta un business considerevole. Le proporzioni sono tali da aver indotto la Commissione Europea a pensare alla realizzazione di uno specifico Osservatorio (European Digital Media Observatory). Coloro che prima non cadevano nelle trappole della disinformazione, continuano a non cascarci perché sanno fare buon uso di quegli strumenti (culturali e personali) che già prima impedivano loro di abboccare, mentre chi ci credeva continua semplicemente a farlo ancora oggi. La presunta missione di “vaccinatore” (che molti hanno tentato di condurre in buona fede e con grandi speranze) non ha avuto successo e chi ha tentato di portarla avanti, creando notizie false ritenendole palesemente confutabili, non ha fatto i conti proprio con l’aspetto della credibilità e quello della viralità.

Prendendo l’esempio di questo specifico episodio, se un lettore viene raggiunto da una notizia pubblicata con il logo di una rivista conosciuta e di una certa autorevolezza nel settore, il primo fattore che spicca è l’ingannevolezza della presentazione che, così “confezionata”, supera i confini di quella satira che invece si può esprimere con elementi di differenza (ad esempio con una testata che avrebbe potuto presentarsi come FakingStone, oppure RollingFake). Certo, chi legge non dovrebbe limitarsi al titolo, ma approfondire. Ma non sono sicuramente poche le persone che, anche leggendo l’articolo, per buona fede o ingenuità non si renderanno conto che si tratta di una notizia falsa e quindi credere che sia vera.

Questi aspetti ci fanno capire quanto l’argomento sia dunque da trattare con una certa attenzione: questa vicenda si focalizza sull’interpretazione della non-credibilità dell’autore di una notizia e chi ritiene che il tema dell’informazione vada affrontato con serietà non può accettare che possa costituire un precedente, importante al punto da mettere in discussione un fenomeno così rilevante e trasversale. Ritengo inoltre che finora sia stato ampiamente sottovalutato un dato di fatto: le dinamiche dei social network sono un volano efficacissimo per rendere virale la diffusione di una notizia che, senza il loro supporto, rimarrebbe confinata ad un numero limitato di lettori.

Ermes Maiolica non è più autore di fake news “educative”, ora si occupa di spiegare le dinamiche della disinformazione nelle università in veste di docente di comunicazione a contratto e ha ricevuto un riconoscimento accademico dall’Università “La Sapienza” di Roma. Ma, come dicevo inizialmente, la richiesta di archiviazione non è ancora una buona notizia per lui: il magistrato ha precisato che, benché per l’atto la procura non intenda procedere a livello penale, rimane «il diritto al risarcimento del danno» con un’azione da proseguire in sede civile. Non resta quindi che i due interessati si convincano della sua buona fede e del genuino pentimento che ha espresso in più occasioni per ritirare ogni denuncia. In bocca al lupo!

 
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Pubblicato da su 8 novembre 2021 in news, truffe&bufale

 

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Trump all’attacco delle Big Tech

Donald Trump attacca le Big Tech, le grandi aziende del mondo della tecnologia, colpevoli a suo dire di attuare una censura nei suoi confronti, in vista delle elezioni presidenziali 2020. L’attacco del presidente USA alle Big Tech parte dalla app di Twitter sul suo iPhone.

Non deve aver digerito molto bene il bollino del fact checking che Twitter ha appiccicato ai suoi tweet sul Governatore della California e sul voto per corrispondenza: prima di questa dichiarazione, sempre tramite Twitter, aveva scritto:

Twitter sta interferendo con le elezioni presidenziali del 2020. Dicono che la mia dichiarazione sulle votazioni per corrispondenza, che porterà a una massiccia corruzione e frode, non è corretta, sulla base del controllo dei fatti da parte delle fake news di CNN e del Washington Post di Amazon. Twitter sta soffocando completamente la libertà di parola, e io, in qualità di Presidente, non permetterò che ciò accada!

Riaffiorano quindi anche i contrasti con Jeff Bezos, proprietario di Amazon e del Washington Post, già ai ferri corti dai tempi del bando per il progetto JEDI per la gestione dell’infrastruttura cloud del Pentagono.

La corsa elettorale americana si sta arroventando e Donald Trump passa ai provvedimenti di prevenzione censoria

 
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Pubblicato da su 28 Maggio 2020 in news

 

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Twitter etichetta come “non veritieri” due messaggi di Donald Trump

I follower di Donald Trump avranno notato che un paio di suoi tweet (il secondo è la continuazione del primo) riportano una segnalazione che li etichetta come “non veritieri”. Un tema scottante, dal momento che il 2020 negli USA è l’anno delle elezioni presidenziali e questa iniziativa potrebbe essere vista come una sorta di interferenza.

Il messaggio riguarda l’attendibilità dei Mail-In Ballots, cioè i voti per corrispondenza: Trump li reputa non veritieri perché la posta potrebbe essere rubata o falsificata, e perché il Governatore della California (un Democratico) spedisce schede elettorali a milioni di persone, senza curarsi di chi siano, e alle quali saranno date istruzioni su come e a chi dare il proprio voto. In calce ai tweet, Twitter ha collocato un dicitura in blu, ben evidente, con un punto esclamativo – che richiama l’attenzione del lettore – seguito dalla frase “Get the facts about mail-in ballots”, ossia “scopri i fatti sulle votazioni per corrispondenza”.

Una sorta di “leggi qui come stanno realmente le cose” dove il “qui” è una pagina del sito della CNN con un articolo di approfondimento sulle affermazioni del presidente che, su Twitter, vanta un’audience di oltre 80 milioni di utenti. Ma non c’è solo questo: Twitter per Trump è un vero e proprio megafono social, sul quale fino ad ora nessuno era mai intervenuto con provvedimenti censori o di richiamo. Un intervento di questo tipo, rivolto al presidente USA da parte di chi gestisce la piattaforma, è una novità molto significativa perché è mirato a smentire quanto dichiarato da Trump. L’iniziativa fa seguito ad altri tweet presidenziali di dubbia attendibilità, come quelli in cui Trump ha gettato un ombra su un membro del Congresso per la scomparsa, avvenuta nel 2001, di una sua collaboratrice.

Cade dunque la neutralità che Twitter ha sempre ostentato? Sicuramente ora è stata introdotta una sorta di moderazione ai contenuti pubblicati dai propri utenti. Che non risparmia nessuno, ma che non mancherà di suscitare reazioni: in quest’occasione, dopotutto, a farne le spese iè stato il presidente degli Stati Uniti d’America.

 
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Pubblicato da su 27 Maggio 2020 in news

 

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Bufale e fake news al tempo del coronavirus: le regole per difendersi sono sempre le stesse

Bufale e fake news riguardo al nuovo coronavirus – e a tutti gli argomenti possibilmente correlati – in questo periodo circolano davvero in abbondanza e si presentano con cadenza quotidiana: dal passaparola maldestro fino alle vere e proprie fandonie, c’è solo l’imbarazzo della scelta.

Fra le “notizie” più eclatanti di questi giorni troviamo quelle secondo cui il virus sarebbe stato creato da Bill Gates nell’ambito di un accordo con le case farmaceutiche (una grande azienda di questo settore però distribuirà gratuitamente un farmaco rivelatosi efficace nelle cure tentate dai medici), che i militari cinesi sparavano a vista contro chi non rispettava il coprifuoco (non ci sono evidenze nemmeno da cittadini italiani che si trovavano sul posto), anticipazioni contenute nei cartoni animati dei Simpsons (ma provate da immagini di recente realizzazione) e via di questo passo. Un elenco sarebbe davvero troppo lungo e probabilmente non sarebbe mai accurato come quello curato da David Puente, che potete trovare su Open.

Individuare bufale e fake news non sempre è facile, ma per questo argomento valgono alcune considerazioni fondamentali, ne ho scritto cinque anni fa, ma le ripropongo perché sono attualissime:

Ma è così difficile identificare una bufala? A volte sì, ma spesso no. Molte hanno caratteristiche ripetitive, che si ripetono di bufala in bufala. Ad esempio l’assenza delle fonti, la citazione di dichiarazioni inesistenti e non riscontrabili, l’utilizzo di termini gergali e poco attendibili. Quasi sempre trattano un argomento di forte impatto (salute, economia, politica) e toccano corde facili per catturare con immediatezza l’attenzione delle masse di lettori che – colpiti dall’argomento – contribuiscono a loro volta alla loro propagazione, condividendola quanto più possibile. Quelle verosimili sono più difficili da riconoscere, ma documentandosi si può arrivare a capire qualcosa di più.

Il problema sta nella condivisione acritica: c’è chi partecipa al passaparola semplicemente dopo aver letto un titolo ma non l’articolo, c’è chi lo legge – superficialmente o con attenzione – e poi lo condivide, e c’è chi lo diffonde aggiungendo proprie considerazioni. In moltissimi casi lo si fa ritenendo che la fonte sia attendibile e senza porsi domande. Per evitare di diventare complici inconsapevoli degli spacciatori di bufale talvolta è sufficiente porsi una prima domanda: da dove proviene ciò che sto leggendo? E’ una fonte attendibile? Cita fonti verificabili, oppure parla di qualcosa che può avere riscontri?

Ad esempio, io ho rilevato che se la notizia è vaga e racconta un aneddoto senza dettagli, quasi sempre è inattendibile. Se vi leggete “lo ha dichiarato il ministero …” oppure “lo ha reso noto l’ente…”, diventa abbastanza facile verificare (è sufficiente cercare l’argomento sul web, ad esempio sul sito web di quel ministero, o di quell’ente). Quindi, se ritenete giusto condividere una notizia perché l’argomento vi sta a cuore, è altrettanto giusto spendere qualche secondo in più per fare una prima verifica e capire se condividerla è un’azione utile alla collettività, oppure se è utile solo a chi l’ha pubblicata. Ritenete di non avere gli strumenti per verificare? Ve la faccio ancora più semplice: in un motore di ricerca, digitate la parola “bufala” seguita dal titolo della notizia roboante che state leggendo.

La bufala è sostanzialmente un amo, gettato da qualcuno che vuole solo pescare la maggior attenzione possibile. Alle spalle di questo primo obiettivo c’è il vero scopo: la ricerca della visibilità, del consenso politico, oppure del vantaggio economico (“cliccate sulle pubblicità presenti sulle mie pagine, tanto mi fanno guadagnare un tanto al click”). Abboccare all’amo significa diffondere informazioni fasulle favorendo interessi altrui, alimentati in modo ingannevole, senza ottenere alcun vantaggio reale. Vale la pena lavorare gratis per favorire altri, sacrificando la propria faccia?

Ricordiamo una cosa: Internet non è una fonte. E’ una rete che unisce reti di computer e grazie al World Wide Web – quel servizio che consente di navigare e approdare ovunque , nato giusto 31 anni fa si può arrivare a trovare notizie provenienti da fonti attendibili, così come senza fondamento. La rete è a disposizione di utenti di qualunque tipo e permette a chiunque, con poca spesa, di pubblicare qualunque tipo di informazione. Tra gli utenti di qualunque tipo troviamo chi si documenta, gli autori di Wikipedia, dell’Enciclopedia Britannica, della Treccani, ma anche della… Quattrogatti e di altre fonti che pubblicano bufale, notizie false e informazioni non controllate. Dalle testate giornalistiche autorevoli ai produttori professionisti della bufala.

Non possiamo più permetterci di credere ciecamente a ciò che troviamo su Internet, così come a ciò che apprendiamo da stampa, radio e tv. Prima ce ne rendiamo conto e meglio sarà per la qualità dell’informazione.

 
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Pubblicato da su 18 marzo 2020 in news

 

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Il business al tempo del coronavirus

Vanno oltre le ricadute sanitarie gli effetti collaterali della diffusione del nuovo coronavirus (enfatizzo “nuovo” perché il termine “coronavirus” indica un genere di virus scoperti da tempo, il nome corretto di questo virus identificato nel 2019 è SARS-CoV-2). Non essendo un virologo da tastiera non mi soffermerò certo su temi medici, ma solo su alcuni fatti specifici che ho rilevato finora, che inquadro in quello che qui chiamerò coronabusiness, ossia il legame tra la diffusione di questo virus e alcuni aspetti economico-sociali.

Una parte della cittadinanza sembra essere intenzionata a procacciarsi un po’ di tutto e si è lanciata all’assalto dei supermercati, che dallo scorso weekend stanno registrando sicuramente un fatturato inaspettato, ma si trovano anche in difficoltà nella gestione delle presenze del personale e nel riassortimento della merce (problema parzialmente evitabile limitando, per certi articoli, il quantitativo massimo acquistabile per cliente). Chi invece si è concentrato a procurarsi strumenti di prevenzione, ha assistito fin dai primi giorni all’exploit dei disinfettanti in gel come l’Amuchina, reperibile anche online a prezzi inspiegabilmente elevati (il medesimo prodotto è reperibile talvolta nello stesso marketplace a prezzi sensibilmente differenti). Anche la vendita delle mascherine sta registrando riscontri interessanti: si possono trovare sia presso improvvisati venditori ambulanti (visti anche a Milano nei pressi della stazione Centrale) che online, dove pullulano annunci pubblicitari mirati.

Sciacallaggio? Forse queste iniziative possono esserne una forma. Di sicuro sono sciacalli i malintenzionati che si spacciano per operatori sanitari a domicilio e, presentandosi per effettuare il test con il tampone o per fantomatiche verifiche sulla possibile contaminazione dell’acqua del rubinetto, entrano nelle case di cittadini spaventati per rubare denaro e oggetti di valore. Altra forma di sciacallaggio è la diffusione di fake news che, facendo leva su curiosità e ansia, giovano solo agli interessi di chi le pubblica, perché catturano l’attenzione dei lettori e fanno ottenere agli autori un guadagno dai click sugli articoli e sugli annunci pubblicitari che li corredano.

Una sfumatura di questo deplorevole fenomeno, a mio parere, è rappresentata da “furbate” come questa dell’Ansa, che sui social pubblica il lancio di una breaking news per annunciare la scomparsa dell’ex presidente Hosni Mubarak, premettendo senza fondate motivazioni l’hashtag del momento, che probabilmente assicura qualche click in più:

 
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Pubblicato da su 25 febbraio 2020 in business, news

 

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Pronti ai pesci d’aprile? Lo siamo tutto l’anno

“I pesci d’aprile hanno stufato”. E’ un po’ la sintesi dell’opinione di coloro che stanno cominciando a boicottarne la tradizione:

Ciao a tutti,

siamo in quel periodo dell’anno in cui le aziende tech cercano di mostrare la loro creatività per il giorno dei pesci d’aprile. A volte i risultati sono divertenti e a volte non lo sono. In entrambi i casi, i dati ci dicono che queste trovate hanno un impatto positivo limitato e possono effettivamente causare flussi di notizie indesiderati.

Considerando i venti contrari che l’industria tecnologica sta affrontando oggi, chiedo a tutti i team in Microsoft di non fare pesci d’aprile. Apprezzo che le persone abbiano dedicato tempo e risorse a queste attività, ma credo che abbiamo più da perdere che guadagnare tentando di essere divertenti in questo giorno.

Per favore estendete ai vostri team e propri partner interni, per assicurare che le persone siano a conoscenza della richiesta di smettere di fare pesci d’aprile.

Questa comunicazione è stata scritta da Chris Capossela, responsabile marketing di Microsoft, azienda che in passato si era mostrata molto attiva nell’organizzazione di scherzi e iniziative curiose (come il rilascio di MS-Dos per gli smartphone o la modifica dell’homepage del suo motore di ricerca Bing pubblicata con la grafica di Google), ma che da quest’anno ha deciso di porre fine alla propria partecipazione a questa tradizione.

Al di là dei risvolti legati a possibili vantaggi o svantaggi derivanti dall’aderire o meno a questa tradizione – che ha ormai 500 anni – le considerazioni potrebbero riguardare un altro aspetto. Pensandoci bene, in un’epoca come la nostra, in cui un’informazione potrebbe essere verificata agevolmente grazie all’uso intelligente di Internet, il pesce d’aprile ha poco senso. Pensandoci meglio, se questo uso intelligente di Internet fosse così conosciuto, bufale e fake news non esisterebbero. Tuttavia prosperano, nonostante il dichiarato impegno di molte aziende ad ostacolarne la diffusione.

Questo cosa ci porta a concludere?

Innanzitutto che il pesce d’aprile non ha più senso perché esiste tutto l’anno. O meglio, che il primo aprile è probabilmente l’unico giorno in cui una bufala può essere diffusa con l’intenzione di fare uno scherzo innocente. Per tutto il resto dell’anno vengono rese pubbliche notizie ingannevoli in malafede.

In secondo luogo possiamo concludere che, dopo decenni di esistenza di Internet e dei suoi servizi (dal World Wide Web in poi), gran parte degli utenti non ha ancora maturato un’esperienza attiva tale da permetterne un utilizzo virtuoso. Troviamo persone che sembrano saper utilizzare benissimo computer e smartphone perché trascorrono una marea di tempo su app e social network, ma che non riescono a spingersi appena poco oltre, perché non pensano di poter sfruttare un motore di ricerca per verificare un indirizzo o una qualsiasi informazione, reperibile sfruttando due briciole di cervello.

Sarebbe bello e auspicabile che, a partire dalla scuola, venisse trattato seriamente il tema dell’educazione digitale, con l’obiettivo di un uso corretto e intelligente delle risorse tecnologiche disponibili al giorno d’oggi. Un tema che si lega però alla già nota necessità di investimenti in infrastrutture pronte e insegnanti preparati, come ho già spiegato in precedenza.

Se tutto girasse nel verso giusto, esisterebbero solo i pesci d’aprile e non le fake news. Perché i primi sarebbero accettati “con spirito” e le seconde, a quest’ora, sarebbero già un ricordo a cui guardare con compatimento.

 
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Pubblicato da su 29 marzo 2019 in news

 

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Perché le fake news si diffondono più dei veri scoop

Krista Kennell / Stone / Catwalker / Shutterstock / The Atlantic

Perché le fake news si diffondono più rapidamente delle notizie vere? Perché ci piacciono “notizie inedite” o, in altri termini, cose nuove. Questa risposta che sembra basata sulle dinamiche della psicologia umana viene da un’analisi condotta su Twitter, uno dei più efficaci veicoli delle bufale, nell’ambito di una ricerca del MIT (Massachusetts Institute of Technology) che ha analizzato 126mila cascade (flussi di conversazioni) pubblicate tra il 2006 e il 2017 con oltre 4,5 milioni di retweet. Gli argomenti dei tweet che si propagano con maggiore facilità e rapidità sono la politica, le leggende metropolitane, gli affari, il terrorismo, la scienza, l’intrattenimento, le calamità naturali. E’ stato rilevato che le “bufale” hanno il 70% di probabilità in più di essere ritwittate e si diffondono sei volte più velocemente delle notizie vere.

Secondo le conclusioni a cui sono giunti gli autori di questa ricerca, sui social network, le persone che ottengono più facilmente attenzione sono coloro che per prime condividono informazioni precedentemente sconosciute – anche se probabilmente false – e chi condivide informazioni nuove è visto come più informato di altri, quindi conquista autorevolezza (anche se non supportata da reale attendibilità). Le fake news per loro natura sono caratterizzate da contenuti inediti (quando sono note è perché sono già state smascherate) e, dal momento che le persone tentano di catturare l’attenzione altrui per riscuotere like e retweet (che sono il “premio” di chi utilizza i social network alla ricerca di visibilità e popolarità), il loro sforzo nel diffonderle fa sì che si propaghino rapidamente.

Più o meno come avviene con uno scoop, inteso come “colpo giornalistico, cioè notizia sensazionale che un giornalista riesce ad avere e un giornale a pubblicare in esclusiva precedendo la concorrenza”. Ma in confronto allo scoop, la bufala riscuote maggiore successo perché intercetta i sentimenti del pubblico, assecondandoli. In altre parole, e generalizzando: molte persone diffondono le notizie che danno ragione alle loro aspettative e sono portate a non verificarle, perché intimamente hanno la certezza che siano vere. D’altronde, non esiste sicurezza migliore di quella che ci dà il nostro cuore.

 
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Pubblicato da su 10 marzo 2018 in news

 

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Bufalari che soffrono di satiriasi

La “satira” deve pungere e far riflettere sull’argomento che colpisce (Lercio e Spinoza sono due ottimi esempi). Quando qualcuno, però, definisce “satira” una presunta notizia che si rivela poi falsa, diffamatoria o denigratoria, vi sta mentendo spudoratamente perché in realtà utilizza uno strumento ingannevole (la “bufala”) a proprio esclusivo vantaggio, ossia per guadagnare visibilità oppure denaro, grazie alle inserzionisti delle pubblicità online che pagano per ogni click ottenuto. Obiettivo facilmente raggiungibile quando la “notizia” cavalca argomenti come il gossip, la cronaca giudiziaria, la politica, l’odio razziale.

Quelli che vedete sopra sono quattro disclaimer che potete trovare in calce ad altrettanti siti web che pubblicano notizie fasulle e che nascondono la propria inattendibilità con uno scopo presuntamente satirico. Potreste trovarli quando vi imbattete in “notizie” dal contenuto di dubbia fondatezza. L’unico reale obiettivo del loro autore è quello di ottenere il maggior numero di click, e poco importa se una parte (cospicua) del pubblico condivide dopo aver letto solamente il titolo o osservato un’immagine, anzi: ogni approfondimento in merito potrebbe portare ad essere smascherati come spacciatori di bufale e diffamatori, quindi l’obiettivo ideale è intercettare i lettori superficiali, perché più sono superficiali e ignoranti e meglio è.

Questi siti di satirico non hanno nulla, ma non si può escludere che gli autori soffrano di una forma particolarmente acuta (e insoddisfatta) di satiriasi, termine di cui vi invito – se non lo conoscete – a cercare il significato, dal momento che il mio intento è intercettare lettori non superficiali 😉

Ecco qualche esempio fresco-fresco di bufale agevolate da siti-civetta e propaganda social:

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Pubblicato da su 13 settembre 2017 in news

 

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Facebook si attiva contro le notizie false, ora

Dopo aver sfruttato per anni la viralità dei contenuti condivisi dagli utenti, indipendentemente dalla loro attendibilità o ingannevolezza, Facebook ha varato una campagna contro la diffusione delle notizie false – o fake news – e a favore della loro individuazione. Ieri sera ho ricevuto la notifica di questo decalogo diffuso dal social network, che snocciola i suggerimenti da seguire per riconoscere una notizia falsa.

Niente che da queste parti non sia già stato detto, ma soprattutto niente che non riguardi il mondo dell’informazione nel suo complesso, e non semplicemente Facebook, che a queste conclusioni pare sia arrivata solo grazie alla collaborazione con MondoDigitale.org.

Meglio tardi che mai, ma l’operazione non annulla l’opportunismo di Facebook, che per anni ha fatto leva sulle dinamiche sociali che favoriscono la condivisione acritica di informazioni incontrollate, con l’obiettivo primario di accrescere il bacino di utenza funzionale al business legato alla raccolta pubblicitaria. Questa iniziativa lavacoscienza è un’apparente rinuncia, da parte di Facebook, ad una parte (cospicua) di quelle risorse che hanno reso grande il suo social network.

Evidentemente ora la necessità di mostrare un approccio etico alle problematiche dei social è molto più forte che in passato. Sarebbe il caso di applicarlo davvero anche – anzi, soprattutto – ai famosi standard della comunità, ossia quell’insieme di criteri che Facebook dichiara di applicare nel valutare ciò che viene pubblicato, spesso in modo opinabile.

 
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Pubblicato da su 14 aprile 2017 in news

 

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Fake news, anziché fare progressi si fanno passi da Gambaro

ddlgambaro

Per contrastare il fenomeno delle fake news, in Senato oggi è stato presentato un Disegno di Legge nato dall’iniziativa dei senatori Gambaro, Mazzoni, Divina e Giro e già noto come DDL Gambaro. Il testo di questa bozza è talmente improponibile da sembrare un riassunto di tutti i tentativi censori di regolamentazione visti in passato in materia di informazione diffusa attraverso il web, che l’aspirante legislatore vede probabilmente come contesto esclusivo di divulgazione delle notizie false, che invece si propagano efficacemente – ad esempio – anche a mezzo stampa cartacea, radiofonica e televisiva.

Il DDL, nel proporre modifiche al Codice Penale (!) e alla Legge 103/75 (sì, quella sulla riforma della Rai), si focalizza su “piattaforme informatiche destinate alla pubblicazione di diffusione di informazione”, categoria in cui rientrano a pieno titolo blog e forum che, seppur non soggetti alle normative sulla stampa, prima dell’apertura – secondo questo testo – dovrebbero essere notificati alla Sezione per la Stampa del Tribunale ed essere conseguentemente assoggettabili all’obbligo di rettifica, da ottemperare “non oltre due giorni da quello in cui è avvenuta la richiesta”, pena una sanzione amministrativa da 500 a 2mila euro.

Ma tranquilli, si prevede anche la reclusione di almeno due anni e l’ammenda fino a 10mila euro per chiunque si renda responsabile “di campagne d’odio contro individui o di campagne volte a minare il processo democratico, anche a fini politici” (e chi stabilirebbe che una campagna di informazione è volta a minare il processo democratico? E con quali criteri?). Un provvedimento unicamente repressivo che, se preso in considerazione, troncherebbe sul nascere la libertà di espressione e confronto di chiunque – attendibile o meno – avesse intenzione di scrivere o commentare un fatto e una notizia. Un bavaglio collettivo, insomma, benché la senatrice Gambaro affermi il contrario.

Nella relazione si legge, tra l’altro:

(…) La Commissione Europea ha recentemente proposto regole più stringenti per quanto riguarda i livelli di privacy sulla comunicazione online.

Bisogna avviare un percorso simile anche in Italia attingendo agli strumenti che già ci sono: le leggi contro le informazioni false, illegali e lesive della dignità personale e ripensarle per il web (…)

Per bilanciare la situazione che si verrebbe a creare, se davvero fosse utile una legge che prevede una punizione per chi trasmette notizie false, sarebbe altrettanto utile una legge per punire l’ignoranza e la superficialità di chi si beve ogni cosa che legge, condividendola a sua volta.

Dai, diteci che avete scherzato.

 

 

 

 
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Pubblicato da su 15 febbraio 2017 in news

 

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