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Perché “sospendere” Telegram sarebbe un errore

Situazione controversa per Telegram, non per il suo ruolo di competitor di WhatsApp sul mercato dell’instant messaging, ma per un certo tipo di attività legate ai servizi di chat segrete e di broadcasting offerto agli utenti. Secondo quanto emerso da un servizio giornalistico che Wired ha pubblicato a inizio aprile, i servizi di Telegram vengono utilizzati per scambi di materiale pedo-pornografico e vendite non autorizzate di abbonamenti IPTV. Negli ultimi tempi sono inoltre aumentate esponenzialmente le iscrizioni a canali e gruppi che diffondono abusivamente giornali e riviste online, motivo per cui la FIEG (Federazione degli Editori di Giornali), ha chiesto “un provvedimento esemplare e urgente di sospensione di Telegram” all’Agcom. Un errore, a mio avviso, perché – anche stavolta – si cede alla tentazione di colpevolizzare uno strumento che viene scambiato per l’origine del problema.

Indiscutibile la preoccupazione per i numeri evidenziati: dalle rilevazioni effettuate su dieci canali della piattaforma – dedicati unicamente alla distribuzione illecita di giornali – emerge un bacino di utenza di 580mila iscritti. Il dato è già di per sè considerevole, ma il problema è ben più esteso, considerando l’ulteriore diffusione che ogni utente può generare in autonomia, inoltrando gli stessi giornali ad altri utenti, sia attraverso Telegram che utilizzando altre app di comunicazione.

La “sospensione” di Telegram sarebbe una soluzione al problema legittimamente evidenziato dagli editori? No, sarebbe una pezza temporanea e inefficace, che spingerebbe la feccia a proseguire su altre piattaforme. Pertanto sarebbe bene andare a colpire la feccia, anziché penalizzare uno strumento di comunicazione che viene sfruttato sempre di più anche da organizzazioni pubbliche e private come strumento di divulgazione di informazioni di interesse pubblico (è dei giorni scorsi, ad esempio, l’annuncio dell’apertura di un canale Telegram da parte del Ministero della Salute).

Chi nota la somiglianza con WhatsApp si chiederà: “perché Telegram e non WhatsApp”? Le due applicazioni hanno sia punti in comune che differenze importanti. Le chat funzionano più o meno allo stesso modo, ma su Telegram possono essere organizzate e ordinate in cartelle. Entrambi consentono le chiamate, ma Telegram non permette ancora le videochiamate, però aiuta ad accorciare i tempi dei messaggi vocali, che possono essere ascoltati anche a velocità doppia. Per i gruppi offre altre funzionalità e permette di arrivare a includere 200mila utenti. A questi si aggiungono appunto i canali, che sono dei gruppi di broadcasting, in cui gli iscritti ricevono notizie e aggiornamenti diffusi dal proprietario.

Telegram si basa completamente sul cloud, e questo permette agli utenti di utilizzarlo senza alcun problema su più dispositivi: l’app è disponibile sia per iOS che per Android ed esistono versioni per Mac OS, Linux e Windows. L’utilizzo della crittografia end-to-end protegge la riservatezza delle comunicazioni e proprio per questa sua “corazza” nel 2018 Telegram è stata vietata in Russia. Certo, questa protezione si rivela funzionale ad attività illecite e immorali, ma accanto a questi utilizzi da contrastare ci sono numerosissimi casi in cui Telegram si rivela veicolo di comunicazione per le istituzioni (anche molti enti pubblici lo utilizzano, anche a livello locale, per raggiungere i cittadini con informazioni utili, annunci di eventi, avvisi di emergenze) e non va dimenticato che si rivela anche strumento di libertà di espressione per chi, nel proprio Paese, è stato vittima di repressione o messo a tacere.

Tutto questo deve riportare la visione di Telegram al suo ruolo di strumento di comunicazione, non di “colpevole” per l’esercizio di attività illecite che ne sfruttano le potenzialità. Per fermarle non si deve sospendere Telegram, devono essere individuati i colpevoli: le possibilità ci sono, come dimostrato dalle indagini della Polizia Postale e delle Comunicazioni che lo scorso settembre è riuscita a identificare per la prima volta alcuni “pirati dell’informazione” che agivano anche attraverso Telegram.

Dal resoconto annuale del 2019 pubblicato sempre dalla Polizia Postale, inoltre, emerge in più contesti l’identificazione di colpevoli di attività come detenzione e divulgazione di materiale pedo-pornografico, così come di persone coinvolte in atti di cyberterrorismo. In Italia come nel mondo.

Stanare chi compie reati su Telegram non è impossibile. Per questo è possibile mantenere disponibile uno strumento senza comprometterne gli impieghi utili o virtuosi.

 
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Pubblicato da su 18 aprile 2020 in news

 

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Un e-book non è un libro (in Europa)

ebookBook[1]

Nei giorni scorsi ha preso il via sul web la campagna Un libro è un libro dell’AIE (Associazione Italiana Editori) con l’obiettivo di chiedere l’equiparazione dell’IVA sugli e-book che oggi è al 22%, mentre sui libri cartacei si applica l’aliquota del 4%.

La discriminazione dei libri digitali si riflette sullo sviluppo culturale del nostro Paese:
l’IVA di un libro di carta è il 4%, quella di un ebook è il 22%. Secondo i protagonisti della nostra Gallery l’ebook è un libro e merita lo stesso trattamento. Se anche tu la pensi così, unisciti a noi.

Al netto della preferenza che ognuno di noi può esprimere verso il fascino del libro da sfogliare con l’indice o verso l’e-book nella sua innovatività, nella percezione dell’utente l’unica differenza editoriale tra libro tradizionale ed e-book è il supporto, cartaceo (materiale) o elettronico (immateriale). Quindi, in base a questo presupposto, il principio di eliminare la discriminazione fiscale tra supporti – dal momento che la sostanza è la medesima – è legittimo che sia ampiamente condiviso, perché non avrebbe proprio senso di esistere. Esiste però un problema, per così dire, di forma: a livello formale l’e-book non è un articolo che si acquista.

Dicendo a livello formale parlo di un aspetto oggettivo e non di un concetto interpretabile. “Acquistare un e-book” significa in realtà ottenere una licenza per leggerlo. Non si acquista un libro, ma un diritto, tra l’altro anche piuttosto limitato: l’utente non ha infatti alcun diritto di proprietà sull’e-book, bensì il diritto ad utilizzarlo a vita, senza però poterlo cedere o prestare. E, a dire il vero, anche quel “a vita” è improprio, perché non corrisponde alla vita dell’utente, ma alla vita dell’account.

Un esempio molto chiaro è reperibile su Amazon, nelle Condizioni d’uso Amazon Kindle Store:

Con il download del Contenuto Kindle e con il pagamento dei relativi corrispettivi (comprese le tasse applicabili), il Fornitore di Contenuti ti concede il diritto non esclusivo di vedere, usare e visualizzare tale Contenuto Kindle per un illimitato numero di volte, esclusivamente sul dispositivo Kindle o sull’Applicazione di Lettura, oppure con le diverse modalità previste per il tipo di Servizio, unicamente sul numero di dispositivi Kindle o di Dispositivi Supportati specificati nel Kindle Store ed esclusivamente per tuo uso personale e non commerciale. Il Contenuto Kindle ti viene concesso in licenza d’uso e non è venduto dal Fornitore di Contenuti.

Le condizioni definite da altri rivenditori non sono diverse. I concetti chiave sono in questi termini: servizio e licenza d’uso. Quindi l’applicazione di un’aliquota IVA più alta per gli e-book è indubbiamente un elemento eclatante di differenza dai libri cartacei, ma è solo la punta dell’iceberg, poiché si tratta di una delle conseguenze di una discriminazione definita a livello formale che per l’utente comporta, oltre ad un esborso superiore, anche l’impossibilità di esercitare quei diritti che derivano dal possesso di un libro cartaceo (proprietà, possibilità di cessione, prestito, successione…).

Il sito web che promuove la campagna in realtà si focalizza solo sull’aspetto fiscale, ma la ratio dell’iniziativa si fonda sul presupposto che l’e-book viene considerato come un servizio digitale. Un altro aspetto, inoltre, merita una precisazione: la frase “La discriminazione dei libri digitali si riflette sullo sviluppo culturale del nostro Paese” potrebbe indurre a credere che la discriminazione (non solo) fiscale sugli e-book sia un’anomalia italiana, ma in realtà il problema si pone nei confronti dell’Unione Europea.

Perciò non è pensabile un intervento solamente fiscale e solamente italiano, ma sarebbe auspicabile una ridefinizione complessiva dell’e-book a livello europeo, con il passaggio di stato da servizio a bene e tutte le conseguenze che potrebbero derivarne. La più diretta: un’imposizione ridotta porterebbe ad un prezzo finale inferiore, che gli editori potrebbero (anzi dovrebbero, condividendo quanto ha osservato in proposito Luca Rota) rendere ancor più attraente per il pubblico, contribuendo a fare da volano per volumi di vendita superiori e alla crescita del mercato.

Molti più e-book venduti naturalmente potrebbero anche significare maggiori entrate per lo Stato a livello di IVA: meglio vendere moltissimi e-book con IVA al 4% o pochissimi con IVA al 22%? 😉

 

 
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Pubblicato da su 4 novembre 2014 in Buono a sapersi, e-book & e-reader

 

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