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Equo compenso?

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Da 3 a 5,20 euro in più per un tablet.

4 euro in più per un televisore con funzione PVR (al netto dell’hard disk installato).

5,20 euro in più per un PC.

0,50 euro in più per ogni tipo di telefono cellulare (anche non smartphone, anche non idoneo a riprodurre MP3 o altri contenuti multimediali)

Fino a 20 euro in più per un hard disk.

Fino a 5 euro in più per una scheda di memoria.

Fino a 9 euro in più per una chiavetta USB.

Queste cifre, insieme ad altre che potete trovare su dday.it  grazie a Gianfranco Giardina, rappresentano il cosiddetto Equo compenso o contributo per la copia privata stabilito da un decreto Ministeriale di imminente pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Si tratta di una cifra definita a titolo di indennizzo, imposta sulla vendita di prodotti elettronici che consentono registrazione e riproduzione di contenuti multimediali protetti da diritto d’autore. Poco importa se il supporto acquistato non verrà utilizzato per memorizzare e riprodurre alcunché. Il contributo viene stabilito ed elargito alla SIAE.

Per la precisione, non si tratta di un’invenzione puramente italiana, dato che esiste in altri Paesi del mondo. Non è una novità in Canada e negli USA, e a dire il vero non lo è per buona parte dell’Unione Europea (tranne Regno Unito, Irlanda, Lussemburgo, Malta e Cipro, che non lo applicano). In Italia, dove esisteva già, il nuovo provvedimento consiste in un aggiornamento delle tariffe e in un’estensione del contributo a dispositivi che prima non lo prevedevano. 

Di conseguenza, non è corretto pensare che un dispositivo elettronico ora diventerà più caro sul mercato italiano in virtù di questo equo compenso. Diventerà ancora più caro di quanto non lo sia già, in virtù del nuovo provvedimento, ma – ancor prima – a causa dei bizantini meccanismi che rendono più costoso produrre e vendere in questo Paese, nonché di una tassazione (IVA inclusa) che non facilita il giro dell’economia.

Il tutto va però ad aggiungersi ai vari colpi di grazia inferti negli ultimi tempi alle aziende italiane: già, perché tutte queste iniziative, nel loro complesso, spingono sempre più il consumatore ad effettuare acquisti online su convenienti piattaforme di e-commerce non italiane. E a questo effetto collaterale chi porrà rimedio?

 
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Pubblicato da su 6 luglio 2014 in news

 

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Canone Speciale Rai, le aziende devono pagare? Una tabella da leggere

Molte aziende – di ogni ordine di dimensioni e di forma giuridica – stanno ricevendo in questi giorni dalla RAI una lettera che informa che le vigenti disposizioni normative impongono l’obbligo del pagamento di un canone speciale a chiunque detenga, fuori dall’ambito familiare, uno o più apparecchi atti o adattabili – quindi muniti di sintonizzatore – alla ricezione delle trasmissioni televisive, indipendentemente dall’uso al quale gli stessi vengono adibiti.

Le vigenti disposizioni normative sono l’art. 27 del RDL 246/1938, l’art. 2 D.L.lt. 458/1944 e l’art. 16 L.488/1999.

Dopo aver riposato gli occhi che avrete debitamente sgranato, constatando che la materia viene regolamentata (oltre che da una Legge del 1999) da una norma letteralmente dell’anteguerra e un’altra risalente comunque all’epoca della Seconda Guerra Mondiale, se avete la responsabilità amministrativa di un’azienda – grande o piccola non importa – vi starete chiedendo se questo canone sia da pagare oppure no.

In questo Canone, a mio avviso, ci sarebbero molti aspetti da approfondire. Quelli che hanno calamitato la mia attenzione, e su cui credo sia opportuno condividere le dovute riflessioni, sono due.

1. Chi deve pagare

La lettera parla di apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni TV, al netto dell’utilizzo che se ne fa, perché muniti di sintonizzatore. In questa categoria, oltre ai semplici decoder e ai televisori muniti di decoder integrato, rientrano – ahimé – anche i cosiddetti Monitor/TV, apparecchi monitor dotati di decoder, spesso commercializzati anche nei punti vendita di elettronica e nei supermercati; se un’azienda ha uno o più apparecchi di questo tipo, ovviamente ricadrebbe nell’ambito di applicazione di questo obbligo di pagamento del canone, se invece l’azienda dispone di monitor normali privi di sintonizzatore, l’obbligo non appare applicabile. Sul sito RAI è presente un prospetto – che riporto nel seguito – in cui è spiegato con chiarezza quali sono gli apparecchi per i quali è necessario pagare il canone, sono indicati nelle prime due colonne.

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2. Quanto e cosa si deve pagare

Argomento non nuovo, ma lo ripropongo a titolo di riflessione perché riguarda un concetto che può sfuggire a molti. Il canone Rai è un’imposta, la Rai non lo dichiara chiaramente, ma se lo fa sfuggire in una pagina del proprio sito web. Al netto della magra consolazione data dalla deducibilità dal reddito d’impresa (micro-privilegio non accessibile ai privati), questa è un’imposta anche se viene devoluta direttamente alla Rai senza passare dall’Erario. Quindi, per la sua natura di tributo, non è comprensibile che – come si legge chiaramente sul bollettino di c/c postale, in basso a sinistra – l’importo del canone Rai sia comprensivo di IVA che, seppur applicata con aliquota del 4%, è anch’essa un’imposta (quella sul valore aggiunto).

Sarebbe tempo di dare regolarizzazione a questa assurda applicazione di un’imposta applicata su un’altra imposta, e questo vale tanto per il canone Rai quanto per qualsiasi altro tributo elevato a potenza.

Ultimo aspetto, non banale: i bollettini di c/c postale – quelli che ho visto io, almeno – non indicano la scadenza, quindi non specificano un termine entro il quale sia necessario pagare. E questo rende ancora più difficile sanzionare qualcuno per non aver rispettato un termine che non esiste.

 
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Pubblicato da su 25 giugno 2014 in news

 

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