Nel 2015 i fondatori di Googlehanno creato una holding chiamata Alphabet per gestire tutte le società e i servizi del gruppo. Nel 2021 – oggi – Mark Zuckerbergha reso noto che Facebook, Instagram, Messenger e WhatsApp (insieme a tutti i servizi dello stesso gruppo come Quest VR, Horizon VR e così via) faranno capo a una nuova società chiamata Meta, un nome che – nelle intenzioni dichiarate del fondatore – rappresenterà “l’attenzione della società sulla costruzione del metaverso“.
Un nuovo nome non cambia la sostanza e l’evoluzione di tutto quanto è nato da (e intorno a) una versione digitale dell’annuario scolastico (tale era l’origine di Facebook). Soprattutto non cancella quanto è emerso dai Facebook Files e da vicende come il caso Cambridge Analytica. Rinominare la holding come Meta è un’operazione di lifting di facciata e non è un caso che, dopo l’annuncio, in borsa i titoli legati al gruppo di Zuckerberg abbiano iniziato a galoppare.
Effetti concreti di questa “novità”: ciò che fino a ieri veniva identificato come Galassia Facebook, gruppo Facebook, famiglia Facebook verrà riunito sotto un unico cappello, un nuovo “cognome” che potrebbe comparire anche nelle schermate di apertura delle app (al posto di “from Facebook”).
Novità per i componenti della famiglia Facebook: all’insegna di una maggiore trasparenza, Instagram e WhatsApp cambieranno nome. Nessuna rivoluzione, solo una aggiunta di cognome: si chiameranno Instagram from Facebook e WhatsApp from Facebook.
Già mi sembra di sentire in sottofondo un brusio a base di “chissenefrega” e “sticazzi”, ma la notizia è più significativa di quanto possa apparire in superficie, perché questa scelta conferma indirettamente una situazione già nell’aria, legata al declino di Facebook. L’aggiunta di quel “from Facebook” ai nomi delle due app – la cui popolarità è tuttora in crescita – appare infatti una sorta di “rivendicazione”, un po’ come se Mark Zuckerberg volesse segnare il territorio presso il pubblico delle piattaforme che fanno parte del suo gruppo.
Sento ancora il brusio degli annoiati. Ok non è tutto: in effetti la notizia, se la lasciassimo così, avrebbe ben poco di succoso, se non fosse per un altro aspetto. Questa formalità del “riconoscimento familiare” sarà il preludio ad un’evoluzione ben più consistente, cioè la fusione delle tre piattaforme in un unico hub, come preannunciato da Zuckerberg in occasione di F8. L’obiettivo del gruppo è unificare i sistemi di messaggistica e “farli parlare tra loro”, ovvero mettere in comunicazione tra loro gli utenti di Messenger, dei direct message di Instagram e di Whatsapp, abbattendo le barriere all’interoperabilità.
Il cantiere è già aperto da tempo e forse è proprio a causa di questi lavori in corso sulle piattaforme che, di tanto in tanto, le app sembrano soffrire di blocchi o rallentamenti generalizzati. L’ultimo disservizio sembra essersi verificato nel pomeriggio di ieri, come segnalato da utenti negli Stati Uniti e in Europa, e fa seguito ad altri episodi che si sono verificati alcune settimane fa e in marzo. L’obiettivo dell’unificazione sembra irrinunciabile, ma per la sua concretizzazione sarà necessario attendere.
Nel frattempo il marketing si muove su quel “from Facebook” che, nelle intenzioni dell’azienda, dovrebbe portare gli utenti di Instagram e WhatsApp a rivalutare Facebook, riconsiderandola come la piattaforma di riferimento. Ma non è da escludere che questa mossa possa essere controproducente: sapere che le due app fanno parte della stessa famiglia del social network che è stato al centro di scandali sulla compravendita di informazioni e dati personali (come nel caso che ha coinvolto Cambridge Analytica) potrebbe non essere una consapevolezza tranquillizzante.
A pagina 42 del documento “Disinformation and ‘fake news’: Final Report” pubblicato dalla Commissione “Digital, Culture, Media and Sport” del parlamento britannico, c’è un pesante monito rivolto ai social network, con particolare riguardo a Facebook, per la sua condotta contraria alle norme su concorrenza e privacy. Il report presenta l’esito dell’inchiesta – durata 18 mesi – avviata in Gran Bretagna basata su documenti aziendali sia quelli ottenuti tramite un’azienda (Six4Three) che ha aperto un’azione legale in California contro Facebook e sulle risultanze delle indagini condotte in seguito al caso Cambridge Analytica.
Alle aziende come Facebook non dovrebbe essere permesso di comportarsi come “gangster digitali” nel mondo online, considerandosi al di sopra e al di fuori della legge.
Nel report viene inoltre stigmatizzata la mancanza di rispetto, da parte di Mark Zuckerberg, nei confronti del parlamento per non aver risposto ad alcuni quesiti posti nell’ambito dell’inchiesta, ed emerge la constatazione che il numero uno di Facebook non è in grado di esprimere la leadership e la responsabilità che ci si attenderebbe da chi è al vertice di una delle più grandi aziende del mondo. Non mancano avvertimenti sulla necessità di integrare le attuali leggi elettorali, ritenute vulnerabili e suscettibili di interferenze, e sulla pericolosità della disinformazione e la propaganda d’odio, mai seriamente ostacolate dalle aziende che operano nel mondo della tecnologia.
Nella loro disarmante ovvietà, le parole che il senatore John Kennedy ieri ha rivolto a Mark Zuckerberg dovrebbero ricordare a tutti un aspetto fondamentale, che va ben oltre il caso Cambridge Analytica e al di là di tutti i datagate:
Ecco cosa stanno cercando di dirvi tutti oggi, e lo dico con delicatezza: il vostro accordo con l’utente fa schifo.
Potete attribuirmi un quoziente d’intelligenza di 75 punti, se riesco a capirlo io, potete capirlo voi.
Lo scopo di questo accordo con l’utente è quello di coprire il didietro di Facebook, non quello di informare i vostri utenti sui loro diritti. Ora lo sapete voi, e lo so io.
Vi suggerisco di andare a casa e riscriverlo, e di dire al vostri avvocati da 1.200 dollari all’ora – senza mancanza di rispetto, sono bravi – che lo volete scritto in inglese, in non-swahili, così che l’utente americano medio possa capire.
Questo sarebbe un inizio.
Parlo di “disarmante ovvietà” perché il senatore ha sparato a salve, parlando a nome dell’utente (americano) medio, toccando una questione collaterale al problema che ha portato Zuckerberg alla prima delle audizioni al Congresso a cui si deve presentare. La realtà è che i termini di utilizzo di Facebook sono poco leggibili esattamente come la gran parte delle condizioni imposte da altri servizi (e non solo nel mondo digitale). Si tratta di vere e proprie condizioni contrattuali che regolano l’utilizzo di un servizio e, dal momento che a definirle è l’azienda che lo fornisce, sono ovviamente scritte per tutelare innanzitutto l’azienda. Più sono articolate e complesse, più l’utente medio sarà demotivato a leggerle e comprenderle, ma non abbastanza da non sottoscriverle, sorvolando sul fatto che – per un servizio non propriamente indispensabile, nel caso di Facebook – sta acconsentendo a consegnare a terzi informazioni personali, ignorando come verranno utilizzate.
Per spendere qualche riflessione sull’audizione del CEO di Facebook davanti alla Commissione Giustizia e Commercio del Senato USA, credo si possa dire che non ha suscitato grosse sorprese. Lasciato a Palo Alto il suo abituale look casual (in termini di abbigliamento, ma anche di contegno), Zuckerberg ha indossato abiti formali e una maschera di misurata tensione per affrontare la Commissione e i media, dando risposte sostanzialmente sospensive a gran parte delle questioni che gli sono state sottoposte. Non sono (affatto) mancate domande poste in modo apparentemente ingenuo, fuori tema o inadeguate, come ad esempio quella del senatore Orrin Hatch: “Come fate a sostenere un modello di business in cui gli utenti non pagano per il vostro servizio?”. “Senatore, pubblichiamo inserzioni” gli ha risposto Zuckerberg con un’altra disarmante ovvietà, che è però la madre di tutte le risposte in merito a questa vicenda.
Anche alcune domande del senatore Lindsey Graham – che lo ha incalzato sul tema della concorrenza – potrebbero essere sembrate mal poste o sbagliate (“Twitter fa ciò che fate voi”?), ma è opportuno considerare innanzitutto la formalità, l’ufficialità e i presupposti dell’audizione: non è stato un interrogatorio nell’ambito di un processo, ma si è comunque trattato di un contesto istruttorio in cui Zuckerberg è stato chiamato a rispondere su vari aspetti di un problema nato in seguito all’attività dell’azienda che rappresenta, fermo restando il principio che “ogni cosa che dirà potrà essere usata contro di lui”.
Se qualcuno si fosse chiesto “ci è o ci fa?”, suggerisco di osservare due cose:
i suoi appunti (trascritti parola per parola su TheVerge): in quelle pagine c’è tutto ciò che Zuckerberg può dire e non deve dire; per tutto quanto non rientra nel canovaccio, le risposte sono quasi sempre “non so” e “devo controllare con il mio team”;
la reazione – di Zuckerberg e dei presenti – suscitata alla domanda del senatore Graham relativa alla posizione di mercato di Facebook: “Non pensa di avere un monopolio?” Risposta: “Sicuramente a me non sembra”
Immutati i temi di fondo: Facebook non ha agito per tutelare gli utenti (87 milioni) i cui dati sono stati venduti, non solo a Cambridge Analytica, ma anche ad altre aziende, come confermato dallo stesso Zuckerberg. In seguito all’audizione i mercati finanziari hanno dato feedback favorevoli, ma ciò non toglie che la reputazione del social network abbia profondamente risentito dei recenti scandali: mentre c’è chi abbandona – o smette di aggiornare – la propria pagina Facebook in silenzio, c’è chi lo fa pubblicamente, come Samantha Cristoforetti:
Caro lettore,
da questo momento sospendo l’aggiornamento di questa pagina Facebook. Mi sto sentendo a disagio al pensiero che stia contribuendo ad attirare utenti su questa piattaforma. Il mio contributo è estremamente piccolo, ma è comunque mio e me ne sento responsabile.
Non mi è ancora chiaro in che misura questa piattaforma sia suscettibile di un abuso e fino a che punto tale abuso sia dannoso per i singoli individui e alle società aperte.
Continuerò a rifletterci sopra e mi sforzerò per documentarmi. Ti incoraggio a fare lo stesso. Se dovessi sentirmi rassicurata in futuro, riprenderò a postare su questa pagina. E’ altrettanto possibile che possa decidere di rimuovere completamente questa pagina. Mi prenderò tutto il tempo necessario per arrivare ad una decisione consapevole.
Si noti che questo è un messaggio personale, che non riflette la posizione dell’Agenzia Spaziale Europea.
Auguri di ogni bene,
Samantha
Nel frattempo, proprio in queste ore ha luogo la seconda audizione di Zuckerberg, davanti alla Commissione Energia e Commercio alla Camera.
Chissà se anche in quella sede, come ieri in Senato, si farà cenno ad una versione a pagamento, affiancata a quella free. Ma, soprattutto, chissà se si parlerà – nel contesto di un’istituzione USA – del GDPR (il nuovo Regolamento Europeo sulla protezione dei dati) come di un esempio di legge da seguire e applicare.
AGGIORNAMENTO
I deputati sono stati decisamente più “aggressivi” dei senatori, focalizzando l’audizione sulla vicenda Cambridge Analytica e sulla privacy degli utenti di Facebook. Poco importa (a noi, almeno), che Mark Zuckerberg abbia ammesso che i dati del suo account fossero tra quelli degli 87 milioni di interessati. Quando gli è stato chiesto “Voi raccogliete dati su persone che non sono utenti di Facebook, sì o no?”, una risposta chiara non c’è stata. Ammettere “raccogliamo dati di persone che non sono iscritte a Facebook per motivi di sicurezza, per prevenire le minacce” lascia comunque aperto un mondo di perplessità: non c’è infatti modo di sapere come avvenga la raccolta e la conservazione di quei dati, non se ne conosce il reale utilizzo e, soprattutto, non è dato sapere da chi e con quali criteri sia definito il grado di severità delle minacce di cui ha parlato Zuckerberg.
Il GDPR è stato menzionato anche in questa audizione (a riprova della positiva considerazione che gli USA sembrano avere del nuovo Regolamento Europeo) quando a Zuckerberg sono state poste domande sulla possibilità che Facebook, anche per gli utenti d’oltreoceano, ne applicasse i principi. La risposta è stata inizialmente affermativa, ma quando in seguito sono stati chiesti maggiori dettagli le argomentazioni sono rimaste poco chiare.
Vedremo se tutti quei “vi farò sapere” avranno un seguito.
Cambridge Analytica uses data to change audience behavior
“Cambridge Analytica usa i dati per cambiare il comportamento dell’audience“, è l’azienda stessa a dichiararlo nella sua homepage, non meravigliamoci dell’accaduto. Quell’azienda che – come è stato svelato da testate come New York Times e Guardian – ha raccolto in modo “disinvolto” i dati personali di oltre 50 milioni di utenti di Facebook, violandone le condizioni di utilizzo.
Per catturare quei dati è stato fatto uso anche di applicazioni – diffuse sul social network – con test di intelligenza, questionari sulla personalità, eccetera. Un altro buon motivo per stare alla larga da simili inutili stupidaggini e utilizzare i social network in modo meno superficiale e, possibilmente, cum grano salis… la colpa non è della Rete ficcanaso, ma degli utenti inconsapevoli che le consegnano la loro vita.