“Mancanza di opportune decisioni politiche e gestionali”: secondo Giuseppe Esposito, vicepresidente del Copasir (Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica), sono queste le motivazioni delle criticità e vulnerabilità che hanno aperto le porte all’attacco informatico che ha colpito il Ministero degli Esteri nel 2016 e partito, secondo quanto riferito dal Guardian, dalla Russia. Da alcuni dettagli emersi nelle scorse ore, però, si apprende che l’attività di spionaggio ai danni della Farnesina potrebbe essere iniziata nel 2014.
“Sulla cybersecurity in molte parti le nostre piattaforme sono un colabrodo” ha evidenziato con perspicacia Esposito. Ma questa, probabilmente, è l’unica certezza che abbiamo, mentre su tutto il resto è ancora necessario fare chiarezza. A cominciare dai sospetti caduti sui russi, gli stessi che avrebbero violato le mail di Hillary Clinton e favorito le elezioni di Donald Trump, ma sui quali non sono state ancora trovate prove: il dato ancora sconosciuto è la reale origine degli attacchi, che potrebbero essere stati veicolati da un malware “simile a quelli usati anche dalla scuola russa di polizia informatica“.
In realtà il Ministero degli Esteri ha confermato solo di aver subito alcuni attacchi, che non avrebbero penetrato “un livello criptato di firewall” (eh?), senza confermare – ne’ tantomeno accennare – alcun sospetto sulla loro provenienza. Nulla avrebbe comunque compromesso le comunicazioni di Paolo Gentiloni (all’epoca responsabile del ministero), dal momento che per la corrispondenza riservata farebbe abitualmente uso solo di “carta e penna”. Il non trascurabile fatto che Gentiloni, in passato, sia stato ministro delle Comunicazioni la dice lunga sulla sua fiducia nella sicurezza dei sistemi di comunicazione utilizzati a livello istituzione e conferma – seppur indirettamente – le considerazioni di Esposito sulle “piattaforme colabrodo”.
Ma perché sono un colabrodo? Quello che Esposito dice in merito alla mancanza di opportune decisioni politiche e gestionali è un riferimento ai limiti delle nostre istituzioni: semplicemente, ancor oggi che ci troviamo nel 2017, la sicurezza delle informazioni non è ritenuta una priorità, perché la classe politica è formata in buona parte da persone che non sono in grado di coglierne l’importanza strategica. E se il dna del nostro parlamento non fosse ancora così prevalentemente analogico, forse si saprebbe almeno qualcosa sull’impiego di quei 150 milioni di euro previsti dalla Legge di Stabilità per la cybersecurity.