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Test sui social network, perché è meglio non cascarci

I test pubblicati attraverso i social network sono un espediente per carpire dati sugli utenti, verosimilmente a scopo di lucro e, comunque, alle spalle dei diretti interessati. Non è la prima volta che ne parlo e molto spesso l’attività dei loro autori è legata in primo luogo all’ecosistema di Facebook, che sulle informazioni personali vive e prospera.

Da qualche tempo a questa parte, però, sembra ci sia – almeno a livello di facciata – un’inversione di rotta ed ora è addirittura l’azienda di Mark Zuckerberg a dichiararsi parte lesa, da quanto si legge in una denuncia sporta nei confronti di Gleb Sluchevsky e Andrey Gorbachov: si tratta di due sviluppatori ucraini, che sono stati accusati di aver raccolto e analizzato dati personali di ignari utenti di Facebook, nonché di aver inserito pubblicità mirata “non autorizzata” nel loro feed di notizie, sfruttando un’app collegata alla piattaforma del social network.

Con la promessa di raccogliere un’entità limitata di informazioni, gli utenti sarebbero stati indotti all’installazione nel browser di un plug-in, in grado di accedere non solo ai dati dell’account, ma anche agli elenchi degli utenti “amici”, benché non pubblicamente visibili. Non è escluso che questa vicenda possa avere legami con un’altra violazione resa nota lo scorso autunno e relativa alla pubblicazione – da parte di un gruppo di hacker – dei messaggi privati di 81mila account Facebook, che a loro volta avevano portato alla diffusione delle informazioni relative a 176.000 profili (la punta di un iceberg, dal momento che il gruppo reo di questa operazione aveva dichiarato di possedere un database con dati di 120 milioni di account), tutte informazioni rivendibili sul mercato dei dati personali.

Quello che è certo è che almeno in un determinato periodo – tra il 2017 e il 2018 – i due ucraini hanno utilizzato il social network per pubblicare alcuni test sulla personalità, con titoli come “Di quale personaggio storico sei il sosia?”, “Hai sangue reale nelle vene?”, “Quanti veri amici hai?” o “Qual è il colore della tua aura?”. Domande decisamente poco esistenziali e soprattutto assolutamente inutili, ma abbastanza attraenti per qualche navigatore in cerca di passatempi senza impegno, pronti a cadere nel tranello in cambio di altri test e oroscopi “personalizzati”.

Dalla lettura della denuncia depositata venerdì scorso, tra le motivazioni sollevate l’azienda fa emergere per Facebook “un irreparabile danno alla reputazione”, con ripercussioni sugli utenti che avrebbero “effettivamente compromesso i propri browser” installando le estensioni richieste dalle app incriminate. Lo “schema” non avrebbe funzionato, tuttavia, se Facebook non avesse approvato l’iscrizione degli hacker – avvenuta con l’utilizzo di due pseudonimi – come sviluppatori autorizzati a sfruttare la feature legata all’accesso a Facebook. Su questa base Facebook punta il dito sui due sviluppatori per violazione del CFAA (Computer Fraud and Abuse Act). La scoperta dell’attività malevola sarebbe avvenuta in seguito ad “un’indagine sulle estensioni dannose” che sarebbero state poi notificate ai team di sviluppo dei browser interessati.

Questa azione legale – che segue di pochi giorni un’altra denuncia verso quattro aziende cinesi accusate da Facebook di aver venduto follower e like fasulli – permette a Facebook di attuare una strategia di difesa dalle denunce, che piovono da più parti nel mondo, in tema di violazione della privacy e della sicurezza delle informazioni. L’obiettivo è di far focalizzare l’attenzione di pubblico e media su hacker malintenzionati, spostandola dalle “debolezze” della piattaforma di social network emerse in casi precedenti, come quello di Cambridge Analytica.

Questo tipo di problema, però, è sorto anni fa e non è superfluo ricordare la denuncia, formulata qualche anno fa nei confronti di Facebook , di aver tracciato “con disinvoltura” le attività online di utenti iscritti e non iscritti al social network mediante i cookies attraverso una raccolta di dati attuata durante la lettura di post pubblici. In quell’occasione Facebook, aveva sostanzialmente ammesso la raccolta di informazioni, precisando che la causa era in un bug.

Se ancora oggi stiamo parlando di queste problematiche, la soluzione non è vicina. Ma, al netto di questa vicenda specifica, la domanda sorge spontanea: è proprio necessario cimentarsi in futili test sulla personalità dalla dubbia (inesistente) attendibilità? Certo, si tratta di giochi simili a quei test che si trovano su riviste da leggere in spiaggia sotto l’ombrellone o in una sala d’attesa. Ma almeno dietro a quelle pagine di carta non si nasconde nessuno pronto ad abbindolarci.

 
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Pubblicato da su 11 marzo 2019 in news

 

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Google – Mastercard, accordo segreto per tracciare le transazioni (dice Bloomberg)

Stando a quanto riportato da Bloomberg, Google avrebbe siglato con Mastercard una partnership (non più) segreta per ottenere i dati delle transazioni “offline” di più di due miliardi di ignari utenti. Le fonti citate parlerebbero di milioni di dollari (pagati da Google), nonché di un accordo tra le due società per una ripartizione dei guadagni. Se la notizia si rivelasse attendibile, ci troveremmo di fronte ad un nuovo scandaloso episodio di violazione della privacy di miliardi di consumatori, le cui transazioni sarebbero state tracciate da Google, probabilmente per una sempre migliore profilazione pubblicitaria.

O per altre finalità? La stampa ci ricorda che nel 2017 Google ha annunciato l’attivazione della piattaforma Storie Sales Measurement, un sistema di “misurazione delle vendite” che le consentirebbe – tramite alcuni partner – di accedere ai dati di circa il 70% di carte di credito e debito USA. Secondo Google, l’accesso non riguarderebbe informazioni personali e – in ogni caso – l’utente può sempre scegliere di non partecipare al sistema facendo opt-out con gli strumenti di gestione Attività Web e App.

Ma di cosa stiamo parlando? L’accordo (presunto) tra Google e Mastercard sembra andare ben oltre. Non si parla solo di monitoraggio di “attività web e app”, ma di acquisizione di dati (a beneficio di Google e dei suoi inserzionisti) derivanti da transazioni “offline”, un’invadenza in un contesto in cui l’utente non ha scelto di utilizzare Internet (o ha scelto di non utilizzare Internet).

Domanda retorica: quanto sanno gli utenti delle loro informazioni elaborate e utilizzate da Google?

 
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Pubblicato da su 31 agosto 2018 in news

 

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L’epoca degli scandali a orologeria e delle apparenze ingannevoli

Avete mai notato come alcune notizie di importanza critica emergano in circostanze particolari? L’ultimo eclatante esempio lo troviamo nella campagna presidenziale degli Stati Uniti: dal suo inizio, e in particolar modo prima di ogni dibattito tra Hillary Clinton e Donald Trump, informazioni, scandali e testimoni legati a fatti risalenti anche ad anni prima spuntano come funghi. Nel caso dei due candidati presidenziali, da quando sono entrambi nella stessa arena la sfida è senza esclusione di colpi, nonostante fino a poco tempo prima i rapporti fossero più che amichevoli…

Questo ci insegna due cose: la prima è che non bisogna fermarsi alla superficie di ciò che appare, ma andare sempre oltre; la seconda è che nessun segreto è inviolabile. Se nessuno lo fa emergere nel momento in cui lo scopre, è semplicemente perché non serve portarlo alla luce in quel momento. Le informazioni vengono raccolte sempre, immagazzinate quando non servono e portate al pubblico quando possono esprimere il massimo del loro valore, sia esso esaltatorio o diffamatorio. E comunque si rimane – apparentemente e forzatamente – tutti amici finché uno non mira a conquistare lo stesso obiettivo.

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Pubblicato da su 10 ottobre 2016 in news

 

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“L’ho letto su Internet” è il nuovo “L’ho sentito in TV”

holettosuinternet

Quando una persona ostenta la conoscenza di un argomento dicendo “l’ho letto su Internet” o “ho fatto una ricerca su Internet” non sta dicendo niente. Anzi, corre il rischio di indurre il suo interlocutore a pensare che si sia informato male, o abbia letto delle gran panzane. Perché è peggio di “l’ho letto su Focus”.

Internet non è una fonte. Internet è la rete che connette tra loro le reti di computer e grazie al World Wide Web – il servizio che consente di navigare e approdare ovunque – è possibile reperire informazioni sia da fonti attendibili quanto da siti farciti di fuffa.

Su Internet le fonti sono estremamente eterogenee, perché il network è accessibile a chiunque (utenti di qualunque tipo) e consente di pubblicare ogni genere informazioni, a vario titolo. In quel chiunque ci sono quelli che si documentano, gli autori di Wikipedia, dell’Enciclopedia Britannica, della Treccani, ma anche della Quattrogatti e di altre fonti che pubblicano bufale, notizie false e informazioni non controllate. Dalle testate giornalistiche autorevoli ai fabbricanti di bufale.

A fare la differenza sono la qualità delle informazioni e la qualità della ricerca. Per avere la prima è necessario che le informazioni siano attendibili e provengano da fonti autorevoli. La seconda è data dalla capacità di riconoscerle. Quindi, anziché dire “Ho fatto una ricerca su Internet“, data la notevole pluralità di informazioni presenti, è opportuno dichiarare da quali fonti provengono.

C’è stato un tempo in cui la TV ha esercitato un’enorme influenza sul tessuto socio-culturale, al punto che frasi come “l’ho sentito in TV” o “l’ha detto la televisione” erano sufficienti a dare una sommaria conferma di attendibilità ad una notizia riportata. La progressiva moltiplicazione dei canali, dei protagonisti e degli interessi che gravitano attorno al mondo televisivo ha fatto perdere solidità a questa convinzione (che comunque resta radicata in molte persone), ulteriormente minata dall’avvento delle nuove tecnologie di comunicazione. I tempi sono cambiati e questa polverizzazione, su Internet, è ancora più fine.

Quindi, è necessario porre attenzione a ciò che si legge su Internet. Sempre.

 
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Pubblicato da su 6 marzo 2015 in news

 

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La cura e i suoi risultati

Lo scorso settembre ho scritto di Salvatore Iaconesi, tecnologo orientato all’open source, che aveva pensato (bene) di condividere via Internet, sul suo sito La Cura, la propria cartella clinica per trovare – appunto – una cura per il tumore al cervello che lo aveva colpito, e da cui ora si è liberato. Ne ha parlato lui stesso ieri alla Wired Next Fest in un intervento molto interessante, in cui ha spiegato come sia riuscito in breve tempo a ricevere numerosi contributi (“ogni persona mi ha fornito la sua cura”).

A mio avviso, oltre alle informazioni mediche specifiche, dalle sue parole si possono fissare due concetti fondamentali. Sono due aspetti del vero significato di apertura. Il primo è la collaborazione diretta:

La società sta male se sta male anche solo uno dei suoi rappresentanti e tutti dovrebbero sforzarsi per dare il loro contributo.

Il secondo riguarda l’apertura intesa come condivisione della conoscenza a beneficio della collettività:

Ci sono un sacco di malattie che scomparirebbero se si aprissero cassetti e si rilasciassero brevetti. Chiediamoci se questi modelli sono qualcosa da vendere oppure rappresentano un desiderio di riappropriarsi delle proprie informazioni e non delegarle ad altri.

 
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Pubblicato da su 2 giugno 2013 in news

 

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Facebook: dovevamo essere più chiari

Con un’incredibile applicazione del mai tempestivo (per sua natura) senno di poi, quelli di Facebook si sono resi conto di aver clamorosamente toppato con la sostituzione degli indirizzi e-mail degli utenti nel loro profilo, e anche con le spiegazioni ufficiali che in sostanza recitavano “avevamo annunciato in aprile che avremmo aggiornato gli indirizzi”, senza però chiarire agli utenti l’entità dell’aggiornamento, ne’ quando l’avrebbero fatto, ne’ tantomeno che il tutto sarebbe avvenuto “a loro insaputa”.

Dovevamo essere più chiari – spiegano ora, aggiungendo che l’aggiornamento è comunque annullabile. Altra toppata: l’aggiornamento (ossia la sostituzione dell’indirizzo dichiarato dall’utente con il nuovo indirizzo @facebook.com legato al suo profilo) dovrebbe essere annullato per default, lasciando all’utente la libertà di indicare ciò che preferisce. Tanto tutti hanno capito che questa operazione è stato un patetico tentativo di spingere gli iscritti all’utilizzo della Facebook mail, che nessuno si fila manco di pezza da quando è nata.

Forse il clamore suscitato dall’iniziativa ha ricordato a qualcuno in più che esiste anche questa mail, ma nell’opinione pubblica di centinaia di milioni di utenti è stata solo una picconata in più alla fiducia che gli utenti ripongono in Facebook…

 
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Pubblicato da su 27 giugno 2012 in News da Internet, social network

 

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Facebook cambia la mail nel profilo degli utenti

Siete iscritti a Facebook? Se nelle informazioni del vostro account avete reso pubblico il vostro indirizzo e-mail (potrebbe essere quello che avete utilizzato per iscrivervi), controllatelo: probabilmente troverete un altro indirizzo, con dominio @facebook.com.

A tutti gli utenti che avevano pubblicato un indirizzo e-mail tra le informazioni di contatto, Facebook l’ha sostituito con quello legato alla mailbox del social network, senza chiedere il permesso a nessuno e senza possibilità di modifica o eliminazione, almeno per il momento.

Gli indirizzi e-mail di Facebook sono nati a fine 2010 e sono legati al sistema di messaggistica utilizzato all’interno del social network, ma ora chiunque (anche se non iscritto a Facebook, ma dotato di una qualunque casella di posta elettronica) può spedire messaggi a tali indirizzi. E’ bene tenere presente che sulla gestione della posta ricevuta all’indirizzo @facebook.com non si può interferire più di tanto e questo potrebbe costituire un problema. Un esempio su tutti: ora lo spam può arrivare anche lì, e sarebbe interessante capire come Facebook si sia organizzata a questo proposito.

Questa notizia non interessa ovviamente gli utenti che non hanno reso visibile un indirizzo e-mail tra le informazioni del proprio profilo, ma potrebbe infastidire – e non poco – chi lo ha fatto, nella genuina e legittima convinzione che, avendo scelto un’informazione da rendere pubblica, non sarebbe mai stata modificata. A questi ultimi suggerisco di eliminare l’indirizzo dalle informazioni pubbliche: entrate nel vostro account Facebook, selezionate Informazioni, andate nel box Informazioni di contatto e cliccate modifica. In corrispondenza dei vostri indirizzi e-mail troverete l’opzione per renderlo non visibile. Selezionatela e salvate la nuova impostazione.

 
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Pubblicato da su 25 giugno 2012 in Buono a sapersi, privacy, social network

 

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