Internet offre enormi possibilità di comunicazione ed è un eccellente veicolo pubblicitario, eppure in Italia – il cui tessuto economico è costituito in prevalenza da piccole e medie imprese – è decisamente sottosfruttato: secondo quanto rilevato da Google, solo il 34% delle PMI ha un sito web e tre su dieci si avvalgono di soluzioni di e-commerce. Niente di nuovo, quel 34% corrisponde a dati diffusi ad ottobre 2013 dopo un’indagine svolta da Doxa Digital per Google.
Poco importa che le PMI attive sul web siano un terzo o la metà, come invece è stato calcolato a fine 2013 sempre da Doxa per Groupon (il cui sondaggio non ha però coinvolto aziende di produzione), e credo sia poco rilevante che, pochi mesi fa, secondo Eurostat le PMI con un proprio sito web fossero il 63% (dato quasi specularmente opposto a quello indicato da Google). Questo dimostra solo che ogni indagine fa emergere risultati che sono conseguenza del campione preso in esame, al netto del punto di vista di chi la conduce.
Al di là di quanto ha indicato Google e che molte testate riprendono – modificando qualche parola rispetto a ciò che somiglia molto ad un comunicato stampa – è importate rilevare che esiste un potenziale da sfruttare per il Made in Italy. Lo dimostrano aziende che hanno saputo cogliere questa occasione con una strategia vincente che ha permesso loro di incrementare produzione e fatturato e questo non riguarda solamente grandi nomi o aziende multinazionali. In questo senso sono molto interessanti, ad esempio, le storie di YourMurano (sito di e-commerce per il ricercato vetro di Murano certificato col marchio d’origine garantita, descritto in questo articolo con data futuribile) o della Torrefazione Caffè Carbonelli (passata da un mercato pressoché locale al mondo intero, moltiplicando il fatturato, grazie al commercio elettronico), che dimostrano che anche le realtà artigiane possono trovare spazio di crescita al di fuori dei loro confini.
E’ online Helpouts, pensata da Google come punto di incontro tra utenti che necessitano di aiuto o informazioni ed esperti in grado di dare loro una risposta. Otto le categorie oggi disponibili e che, verosimilmente, aumenteranno in futuro: arte e musica, computer & elettronica, cucina, formazione scolastica e professionale, moda e bellezza, fitness e alimentazione, salute, fai da te (casa e giardinaggio).
Accessibile a chi ha un account Google+, il servizio è a pagamento. L’utente – prima di usufruire di una consulenza – può esaminare le recensioni di altri e sfruttare l’opzione soddisfatto o rimborsato, entro tre giorni dall’utilizzo del servizio.
Secondo il Wall Street Journal si tratta di un’estensione di Google che consente di ottenere risposte che un motore di ricerca non può dare in modo esaustivo.
Personalmente sono scettico sulle prospettive di successo di questo progetto, ma non mi dispiacerà essere smentito in caso contrario. L’unico pregiudizio che ho in proposito riguarda il fatto che – come per le attività di ricerca svolte con Google, e di navigazione con il browser Chrome – Helpouts possa rappresentare un ennesimo raccoglitore di informazioni sugli utenti, da utilizzare a scopo di profilazione, pubblicità comportamentale e via discorrendo.
Il suo ambizioso obiettivo dichiarato è “raccogliere informazioni riguardanti le attività mafiose direttamente dall’interno delle stesse” e il suo nome è MafiaLeaks. Online da poche ore, questa nuova risorsa di whistleblowing (che significa, per rendere l’idea, “denunciare dall’interno”) è una sorta di WikiLeaks di settore, vista la specificità della tematica trattata, essendo stata aperta per dare spazio alle segnalazioni di vittime o persone a conoscenza di informazioni su attività di stampo mafioso. Un’arma contro l’omertà che è stata realizzata con GlobaLeaks, piattaforma software open source e gratuita che agevola la raccolta e l’invio di informazioni riservate a destinatari selezionati.
Il sito web MafiaLeaks è solo un’interfaccia di presentazione del progetto, con le istruzioni per prendervi parte. L’anonimato delle informazioni raccolte è tutelato dall’impiego di Tor e caldamente consigliato:
Non vi chiediamo di fidarvi di MafiaLeaks, anzi, vi preghiamo di non fidarvi di MafiaLeaks! Inviate le vostre infromazioni in maniera anonima, non fate il vostro nome, non lasciate niente all’interno dei dati che possa essere riconducibile alla vostra persona.
L’iniziativa appare molto interessante e credo valga la pena seguirne gli sviluppi.
Il Comitato di redazione del Corriere della Sera, prima di capire cosa significhi “essere online”, nell’ottobre 2013 ha scritto questa lettera al proprio direttore:
Caro direttore, abbiamo visto con stupore che il nostro sito online ospita addirittura un link a un altro sito. Ci sembra una iniziativa incomprensibile, specie in un momento in cui stiamo discutendo, con tutte le difficoltà che conosci, su come rendere più redditizio il nostro di sito. Ti chiediamo, dunque, di interrompere quest’operazione che ha disorientato la redazione e che per altro è stata assunta senza neanche informare il Cdr, come invece è previsto dal Contratto. In caso contrario non riusciamo proprio a capire di che cosa dovremmo continuare a discutere. Un caro saluto
Personalmente, rimango dell’opinione che una testata giornalistica – soprattutto nell’edizione web – non possa esimersi dal pubblicare i link non solo ad inserzionisti pubblicitari, ma anche alle fonti da cui la notizia è stata tratta, o ai siti a cui una notizia fa riferimento, e ben venga il fatto che il collegamento porti al sito di un’altra testata (in questo caso si parla di un box che portava al sito Linkiesta, finito sulla homepage di Corriere.it per motivazioni non ancora chiarite, ma non per questo ingiustificate o illegittime). Sono convinto sia più redditizio nei confronti dei propri lettori, che torneranno su quelle pagine proprio perché sapranno di trovare in esse un valore aggiunto rispetto all’edizione cartacea. Nonostante quel cornicione pubblicitario che circonda il Corriere (e altre testate) affinché sia più redditizio, ma che per utenti come me è addirittura controproducente, perché crea un inquinamento visivo che mi fa desistere dal visitare il sito.
Comunque – finché non verrà completamente eliminata – sul sito c’è ancora qualche traccia del presunto misfatto.
In questi giorni i media ci stanno facendo prendere confidenza con il termine parbuckling, tuttora sconosciuto a molti traduttori automatici, che un tempo indicava generalmente un metodo per spostare – per rotolamento – barili di generi alimentari. Un’operazione che, graficamente, può essere spiegata con questi due esempi:
Questo termine conquista gli onori della cronaca perché è stato utilizzato per indicare, per analogia dinamica, tutte le operazioni legate al complesso riassetto verticale della Costa Concordia. E chissà che miriade di contatti sta registrando The parbuckling project, il portale web realizzato da Costa Crociere SpA per fornire informazioni e aggiornamenti sul progetto.
Quando è accessibile, il sito si presenta con questi contenuti:
Considerando l’eccezionalità dell’operazione, è verosimile pensare che attiri l’attenzione di molte persone. E che il sito possa presentare il messaggio che riproduco all’inizio di questo post.
Date un’ultima occhiata ad AltaVista perché la sua chiusura ufficiale è stata prevista per domani.
Per chi si chiedesse di cosa sto parlando: AltaVista negli anni ’90 era il motore di ricerca di riferimento. Fu lanciato da Digital Equipment nel 1995, lo stesso anno in cui Larry Page e Sergey Brin si incontrarono a Stanford, dando vita ad un’amicizia e ad una collaborazione professionale che, dopo pochi anni, avrebbe a sua volta dato vita a Google.
AltaVista, in realtà, è scomparso dal web già da qualche anno: il suo indirizzo porta solamente ad un’interfaccia alternativa di Yahoo! (che lo acquistò nel 2003).
Dalla grafologia alla twittologia: al Centro interdipartimentale Mente-Cervello (CIMeC) dell’Università di Trento è in corso uno studio per il riconoscimento della personalità di un individuo da un suo testo scritto sul web. La ricerca viene effettuata su Twitter e il ricercatore Fabio Celli, che organizzerà il primo workshop sul tema al MIT di Boston, spiega: ”Abbiamo rilevato che gli utenti emotivamente stabili hanno interazioni forti, conversazioni, con una cerchia ristretta di utenti; invece, gli utenti come nevrotici hanno interazioni deboli”.
L’argomento incuriosisce e non è affatto facile: il vincolo dei 140 caratteri per messaggio imposto da Twitter porta spesso a scrivere con molta sintesi e abbreviazioni. Sarà molto interessante capire cosa emergerà dalla presentazione dei risultati di questo studio.
Se un malfunzionamento di Facebook Connect può bloccare mezza Internet – eventualità che si è verificata la scorsa settimana – significa che ci troviamo di fronte ad un problema di dipendenza da Facebook da parte di molti siti web e questo impone una riflessione.
Leggendo il post di Max che ha evidenziato l’indolente traduzione in inglese che si può tuttora trovare sul sito del MIUR – sezione bandi – ho capito che, per le nostre istituzioni, l’agenda digitale è una misura necessaria, ma non può prescindere dal buon senso.
Una persona “poco smaliziata” potrebbe leggere quella traduzione come “Dalla pecora allo stile canino” e chiedersi che c’azzecca il cane con la pecora, il pecorino e la tracciabilità. Il fatto che Doggie style – che potremmo tradurre con “alla maniera dei cani” – è la locuzione inglese che corrisponde al nostro concetto di pecorina, fa emergere una traduzione letterale alquanto maldestra (tra l’altro anche Google Translate fa di meglio, con l’intera frase, mentre cade in errore utilizzandolo per tradurre i singoli vocaboli) e la dice lunga sulla necessità di dover partire dall’ABC.
Però non sarebbe una cattiva idea dare una controllatina ogni tanto a ciò che si pubblica sul sito web di un ministero… e magari – visto che ci arriva a cascata, senza filtri – anche su quello della Commissione Europea…