Ha suscitato scalpore la notizia esclusiva riferita dall’edizione online de L’Espresso e relativa ad un accordo siglato tra Facebook e la Polizia delle Comunicazioni che – primo caso tra gli organismi di pubblica sicurezza in Europa – le consentirebbe di effettuare controlli approfonditi sugli utenti del social network senza dover chiedere nulla alla magistratura. Notizia che, però, è stata vigorosamente smentita dai vertici della stessa Polizia Postale.
In virtù dell’accordo, agli investigatori italiani sarebbe stata dunque concessa una “corsia preferenziale” utilizzabile “soprattutto nella lotta alla pedopornografia, al phishing e alle truffe telematiche, ma anche per evitare inconvenienti ai personaggi pubblici i cui profili vengono creati a loro insaputa”. Obiettivi conseguibili operando – secondo l’articolo – in deroga alle normative che prevedono l’applicazione e il rispetto un iter autorizzativo, come la Protezione Civile per le operazioni di emergenza.
Alla legittimità degli intenti anticrimine di questa iniziativa si contrappongono però alcune condivisibili perplessità, altrettanto legittime: innanzitutto – se l’indiscrezione corrispondesse a verità – sarebbe opportuno capire entro quali confini si potrebbe muovere la Polizia. Va da se’ che l’utilità dell’analisi di un profilo si potrebbe spingere a tutto, dagli status update (incluse le informazioni di geolocalizzazione), alle foto, fino alla cronologia delle chat, configurando un’attività di perquisizione e intercettazione di contenuti digitali paragonabile a quella svolta dalla Polizia sulle intercettazioni telefoniche autorizzate dalla magistratura, che il Governo da tempo cerca di arginare.
Decisa la smentita del direttore centrale della Polizia Postale Antonio Apruzzese: “Figuriamoci se la polizia si mette a spiare i navigatori di Facebook. Quando la polizia postale o altri organi (Carabinieri, GdF ecc ecc.) nel condurre una indagine si trovano ad intercettare comunicazioni su Facebook, si muovono sempre con l’autorizzazione della magistratura. Anche perché nel caso contrario tutto ciò che si fa non avrebbe alcun valore processuale. Anzi se violassimo la rete senza autorizzazione della magistratura commetteremmo un reato penale“.
Apruzzese puntualizza: “Ai primi di ottobre sono venuti in Italia, dopo lunghe trattative e contatti i responsabili di Facebook al massimo livello accompagnati anche dai loro legali e hanno illustrato le procedure per chiedere ed ottenere l’accesso alla rete per vicende di polizia giudiziaria e, soprattutto per quali casi, in base alla legislazione anglosassone, si possono concedere le autorizzazioni. Hanno spiegato punto su punto, abbiamo stilato le linee guida e girato le direttive a tutti gli organismi di polizia italiana“.
Un incontro durato due giorni, a cui la stampa italiana aveva dato ampia pubblicità e che si era svolto in Italia, con una spedizione proveniente da Palo Alto. In una delle tante note riportate dalle agenzie di stampa il 7 ottobre si leggeva infatti:
A conclusione della due giorni sono state definite le “linee guida” che regoleranno i rapporti tecnico-operativi fra la Polizia Italiana e l’azienda statunitense con particolare attenzione agli aspetti di prevenzione e riduzione degli illeciti commessi online. Il documento riflette l’ottimo rapporto di collaborazione da tempo in atto tra il Servizio Polizia Postale e delle Comunicazioni e i responsabili di Facebook e potrebbe divenire a breve uno standard internazionale. Infatti, unico del suo genere, costituisce una importante innovazione nei rapporti di cooperazione internazionale tra rappresentanti del settore pubblico e privato.
L’articolo esclusivo de L’Espresso potrebbe quindi essere una libera interpretazione di quell’incontro (e questo è ciò che la smentita di Apruzzese induce a credere), oppure il resoconto di un seguito più riservato, con un nuovo incontro tenutosi a Palo Alto, su cui però non esistono ulteriori conferme.
Ciò che è certo è che, per l’ennesima volta, si parla di problemi di privacy in ordine a Facebook, che cadono appena qualche ora dopo la rivelazione di quei 6600 dollari “investiti” dall’azienda per portare a cena rappresentanti della maggioranza politica californiana e convincerli ad abbattere un disegno di legge sulla riservatezza, e qualche giorno dopo la scoperta che la piattaforma ospita da tempo applicazioni-colabrodo che diffondono dati personali a beneficio del mondo del marketing e all’insaputa dell’utente. A questo punto, per chi ancora non ha pensato all’opportunità di gestire in modo opportuno il proprio profilo su un social network, s’impone una seria riflessione.
[oggi su The New Blog Times]